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Lucio Battisti, che cantava senza limiti e confini i nostri giorni recintati e spenti

A 25 anni dalla morte, il musicista di Poggio Bustone rimane uno splendido enigma. Ineguagliato e rimpianto. Ma la critica militante e ipocrita degli anni '70 lo sminuiva con gli argomenti più meschini (e ignoranti).

18 Settembre 2023

Lucio Battisti

Sono giorni di Lucio Battisti, fra ricorrenze solenni (25 anni dalla morte, il 9 settembre) e avvisaglie d’eternità nell’arte e nelle beghe epistolari e giudiziarie tra la moglie e Mogol. Di un grande artista si dice invariabilmente che è perenne, che non passa, la sua arte ha raggiunto l’eternità sconfiggendo il tempo, ma nel caso del capoccione reatino, il mancato informatico o pastore di Poggio Bustone, le cose si complicano: come ha fatto una critica ostinata e codina a negargli per anni, per decenni la grandezza che gli spettava? Sì, certo, moltissimi anche i riscontri, su tutti quello di Renzo Arbore, ma nell’Italia soffocata dalla stupida intellighenzia anni ‘70, dal marxismo liofilizzato, saper comporre canzoni popolari e per giunta farsele amare era uno sgarro da reazionari, da non perdonare. Si preferiva la pochezza sonora, l’anonimato vocale dei barbudos, i cantautori militanti con le loro impostazioni teleologiche e magari teologiche da scuola dell’obbligo, la militanza più o meno attiva, più o meno opportunistica, il pugno chiuso al Re Nudo di Parco Lambro o alla Festa dell’Unità o al raduno nell’alone del terrorismo; tutto e tutti ma Battisti no, uno che faceva motivi squisitamente rielaborati dai ritmi americani, impastati con un melodismo a volte pucciniano, per tradizione, inevitabilmente, ma, da subito, ben oltre la tradizione, lontano dal melodramma, questo no. Chi sa di musica, anche un poco, capisce subito che le cose battistiane sono diverse nel senso che uniscono elementi disparati e le uniscono in un modo mirabile e perfino misterioso: le strutture armoniche mai sentite prima, a volte al limite dello sperimentalismo, quel modo di concatenare accordi uscendo dagli incastri con soluzioni spiazzanti; così come, al di sopra, la melodia ora sinuosa, ora essenziale, Battisti può scrivere arie come Vento nel vento ma anche pezzi ultra-minimalisti da un solo accordo come Supermarket, che si dilapida in una jam session con la Premiata Forneria Marconi. Le doti melodiche si esalteranno, paradossalmente, nell’ultimo periodo, quello, imperscrutabile, dei “dischi bianchi”, in particolare con L’apparenza che sotto la patina sintetica, elettronica nasconde almeno dieci temi per ogni canzone, smontati e ricombinati con la precisione di un computer e la fantasia di un genio.

A questo punto non si può non affrontare il grande enigma, o scandalo, dei testi, dei versi: chi scrive, per metterla giù subito chiara, considera Mogol sopravvalutato: ottimo paroliere certamente, abilissimo nei bozzetti ecologisti o nevrotici della modernità che Battisti personalizzava con la sua voce stridula o selvatica, comunque comune: il gran prodigio fu la fusione delle istanze, sonora, verbale, in momenti capaci di rappresentare il qualunque di ciascuno: facendolo in modo da rendere nobiltà avventurosa, narrativa alla non eccezionalità della routine collettiva. Un incanto che ha retto per una quindicina d’anni, dal ‘65 all’80, secondo pulsioni cangianti, equilibri precari fra i due, mutazioni psicologiche, maturazioni, involuzioni. Ma, sempre a personalissima valutazione, nella miscela inscindibile il quid definitivo lo dà la musica: Mogol avrà poi altri fasti, coi vari Cocciante, Bella, Celentano, riproponendo e imponendo sempre la sua formula, come una densa lunga ombra di parole che si stendono sulla musica, plasmandola. Se gli va bene, come con Mango (Oro), va bene, se è svogliato è una catastrofe (le liriche di Aria e cielo, album di Tozzi del 1997, sono vergognose). Rapetti in arte Mogol oscilla tra correnti di qualunquismo e, ogni tanto, sprazzi di sublime, ma nel suo campo altri hanno raggiunto vertici più alti, su tutti Giancarlo Bigazzi e la stessa Franca Evangelisti.

Quando le strade si separano, Battisti si concede un album di transizione, lo spinoso sperimentale ingenuo orgoglioso E già, nel 1982 (è uscito da poco un bel libro del battistologo Donato Zoppo, Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale), poi, 4 anni dopo, parte per la tangente ritmica, sintetica, testuale con Pasquale Panella: altro campione del parolismo sonoro di gran livello ma egualmente sopravvalutato, sempre se è lecito dirlo; e lo diciamo, senza riguardo, perché chi s’impanca a padreterno, vuoi con falsa modestia, vuoi avvolto dall’ermetismo strategico, ci ha ampiamente stufato. Comunque, l’evoluzione o involuzione c’è, la rivoluzione c’è ed è imprescindibile, è scioccante: “da acquarellista ad astrattista”, sintesi di Pietruccio Montalbetti, riassume bene il percorso inaspettatamente concluso nel 1998 in attesa di ulteriori capovolgimenti che non sarebbero mancati. Cosa avrebbe escogitato Battisti, a questo punto solo gli dèi sarebbero in grado di dirceelo. Gli dèi e quella moglie per molti arpia, per pochi tutrice, per tutti maniacale nel controllo, che avrebbe imploso un uomo, un artista cui la patente di unico, irripetibile, irraggiungibile una volta tanto si attaglia con la forza dell’evidenza. Oggi come e più di allora. Ci volle davvero tutta l’imbecillità di una critica faziosa, disposta per partito preso ad assordarsi. Ma oggi è forse diverso? Oggi è aanche peggio perché alla stupidità è subentrata l’avidità mercantile, la critica pubblicitaria che ha rinunciato a qualsiasi rispetto di sé. “Quando usciva lui” ha detto Renato Zero “era un trauma per tutti perché in un modo o nell’altro eri costretto a misurartici e intanto lui già stava altrove”. Anche nel modo di prodursi, di gestirsi: rifiuta somme spropositate per non imbarcarsi in tour, ospitate televisive, roba che odia, che lo distoglie da quelle sue canzoni accessibili, afferrabili “anche a Poggio Bustone” ma sempre sofisticatissime, frutto di un lavoro estenuante prima a mettere, poi a togliere, infine a rifinire, su ogni sfumatura, su qualsiasi particolare, le dieci, le quindici ore al giorno “e nel tempo libero io non sono di nessuno, io voglio fare solo quello che mi pare a me”. La semplicità come punto d’arrivo, l’estro armonico come traguardo faticoso, faticato, l’ammirazione sconfinata, al confine con l’invidia benevola, di strani tipi che si chiamano David Bowie, Paul McCartney, Peter Gabriel… Battisti è pigro, non sa curare i business globali, fatica ad offrire un caffè, gira su auto scassatissime targate Rieti, chiede lo sconto; ma si dota, sempre, subito, dei macchinari e gli strumenti all’avanguardia, rifiuta due miliardi secchi da Agnelli (negli anni ‘70…) per cantare al Regio, assorbe e libera, respirando rende ossigeno: adora il mare, lo cavalca a vela, lo vola con il windsurf, ma nessuno mai saprà rendere “quella Milano là”, dove siamo cresciuti, in Città Studi, il suo dinamismo sporco, la frenesia polverosa, la gioiosa confusione e lo sgomento della solitudine ammucchiata, lo spleen domenicale delle serrande abbassate, parcheggi e file, corse industriali e indugi premoderni; e magari stava già al Dosso, nella “Brianza velenosa”. Onore a Mogol, dunque, ma senza quelle vibrazioni ogni racconto è vano, è velleitario. Fascista? Di destra? Tutte balle e lo sappiamo, ma siccome lo diciamo, lo dicono, sarà vero: così andavano le cose, così vanno ancora nell’Italia stupida e codina che oggi finge di adorare Battisti quanto ieri lo voleva fuori gioco, anche perché lui non se ne curava: uno che se mai s’è accorto, di sbieco, per sbaglio, della politica, è stato imbattendosi nella figura imprendibile affascinante di Pannella, cui mandò qualche lettera. Per inquadrare, per capire, per istinto e attrazione del diverso, come sentiva lui. Un provinciale, diffidente come un piccolo borghese, uno che la borghesia la condanna, la fugge ma la difende e la mistifica, la chiama libertà. Uno che la grandezza la serba tutta per cantare la banalità degli altri, cui consegna le chiavi di una spicciola amorevole immensità.

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