29 Agosto 2023
L’hanno fatto un’altra volta. L’ultima. Perché sì, “questa potrebbe essere l’ultima volta, non lo so”. I Rolling Stones un disco non di cover, di brani originali, lo fanno aspettare da più di 18 anni: come a dire dal loro esordio, imberbe, nella Londra del 1964, a Undercover del 1983, già dati per vecchi, con addosso cento carriere e cento vite. Quando fecero A bigger Bang nel 2005 era tutto diverso, non c’erano i social, non c’era l’uso totale della rete, e loro sembravano al capolinea, Charlie reduce da un cancro, un’aria di grandeur, come sempre, ma di esito finale, anche. Hanno suonato quasi ininterrottamente per i successivi 18 anni, Charlie è morto, tutti si sono ammalati, Mick al cuore, Ronnie di due tumori, Keith di una caduta che gli ha provocato un terremoto nel cervello, tenuto insieme da 7 placche di titanio, e non è stato più lo stesso. Nessuno di loro. Ma ci sono ancora e la strategia per il nuovo album è squisita come una buona vecchia cosa del Regno Unito: sarebbe piaciuta da matti a Charlie Watts, è piaciuta a tutti perché gli Stones restano una istituzione globale, una multinazionale col cuore e la mente in Inghilterra. Un falso annuncio su un giornale locale vero, a simulare una vetreria, e il titolo, Hackney Diamonds, e la lingua che li identifica, che è solo loro, frantumata in pezzi, pura arte grafica tra il concettuale e il pop. Niente di più per ora, ma gli indizi sono inequivocabili: l’annuncio, coi caratteri di uno dei dischi più gloriosi, “Some Girls”, pieno di riferimenti a successi passati, un accenno al logo, in alto, quasi invisibile, quel rimando a casa, a Londra, alla zona di Hackney, da cui la Hackney Gazette che ha ospitato il falso strillo sul negozio che apre “prestissimo a settembre”: eccoci, siamo noi, siamo fragili e ostinati come vetro, siamo spezzati, ridotti a schegge ma non andiamo via e riportiamo tutto a casa, dove, mille vita fa, eravamo partiti 62 anni fa. Non si può immaginare niente di più elegante, di più còlto. Oggi i lanci delle popstar sono fanfaronate infinite, insopportabili, l’involuzione di quei circhi equestri che loro facevano già, con tutt’altro stile, nel ‘68.
Adesso giocano in sottrazione, per il momento: poi ci sarà modo di invadere il globo. Giocano a nascondersi, ma che sia chiaro che ci sono, che sono loro. Hanno 80 anni, Bill Wyman, che se n’era andato nel ‘93, ed è stato reclutato sul nuovo album per puro amore di Charlie, che ci suona dentro e al quale il disco è dedicato, di anni ne ha 87. Oltre l’ospizio, ma con gente del genere non ha molto senso calcolare l’anagrafe e ci si può impazzire in quella selva oscura, ma luminosa, di allusioni, che ora cogli ora ti passano davanti e non le vedi: Hackney Diamonds, e nell’epocale Exile on Main Street, 1972, c’era quel passaggio, “I gave you diamonds, you gave me tropical desease”. Exile è sempre stato la pietra di paragone per ogni altro disco a venire e perfino passato. I Rolling Stones hanno sempre avuto, e mantengono oggi, in limitare di gioventù, il meglio del meglio della comunicazione, nessuno come loro, mai, la linguaccia concepita dallo studente d’arte John Pasche nel 1970 nasceva da una citazione delle labbra di Jagger a sua volta influenzato da figurazioni della dea kali. Poi veniva Warhol, con le sue cerniere, poi una serie infinita di copertine, un immaginario infine raccolto in una mostra itinerante che è pura arte novecentesca e non finirà mai di viaggiare. Quel logo è il più riconosciuto al mondo ancora oggi, insieme a quello della Coca-Cola. Niente mai di sciatto, di casuale, se ne occupavano legioni di artisti, di creativi, d’accordo, ma sopra di loro c’erano Mick e Charlie: anche nella concezione dei palchi, negli sfondi, cominciati dal 1981, coi tour negli stadi, evocativi sempre di correnti artistiche e dunque saggi artistici a loro volta. Fino all’autoironia dolente ed elegante dell’ultimo atto, siamo vetri, e i vetri si spezzano, ma non si consumano. Restano. In Italia nessuno è mai arrivato neppure lontanamente non diciamo a qualcosa di simile, ma neppure a ipotizzare una concezione del proprio lavoro artistico immergendolo nell’arte. O scimmiottano, le varie Elodie, stilemi della volgarità poppettara americana, o, nei casi penosi, si affidano alle escandescenze frignone di chi non ha mai avuto niente da dire, come Morgan che è uno Scanzi del pop pretenzioso ma vuoto, senza sostanza. I rottami politicizzati invecchiano nel loro giardino di occasioni perdute, e fraintese, e, quanto ai nomi più eclatanti, e più spremuti, i Vasco Rossi, i Renato Zero, indulgono in un personalismo narcisistico desolante, volto all’autocelebrazione perenne e, in definitiva, stucchevole. Come a dire: io sono io e tanto vi basti. Sempre con quel disco rotto, “quando io rompevo gli schemi, quando mi boicottavano, quando mi escludevano, sono un ribelle, sono quello che ha aperto la strada”. Ribelli con il parco macchine e le proprietà immobiliari. Ribelli che due anni fa si misero in fila per sierarsi a raffica e mascherarsi, da cui una serie infinita di accidenti, di guai che ne pregiudicavano anche la tenuta fisica. In Italia trovare uno che non sia stato solo, cane sciolto, ribelle, escluso, incompreso, e che infine non abbia trionfato da solo contro il mondo, come un eroe omerico, è fatica vana: tutti, anche Pupo, anche Cutugno, pace all’anima sua.
I Rolling Stones, che scusate se sono i Rolling Stones, hanno un atteggiamento un po’ diverso. Se in una intervista gli ricordi il passato arrembante, l’antagonismo, tutte quelle balle lì, alla prima volta Jagger ti ride in faccia, annoiato, ma devi capire, subito: se ci riprovi ti caccia via, non sopporta il nostalgismo patetico. Quanto a Charlie Watts, non c’è stato al mondo un musicista più devoto e meno egocentrico. “Ma come hai potuto entrare in controtempo all’inizio di Honky Tonk Woman, dove l’hai trovata l’ispirazione, che tutti provano a imitarti e nessuno ci è mai riuscito?”. “Oh, mi ero semplicemente sbagliato”. Anche loro, come tutti, naturalmente si sono normalizzati, hanno rincorso la struttura, si sono adeguati, durano da sei decenni, fare il ribelle a vita, a settanta, ottanta anni è assurdo e loro diciamo dalla fine degli anni Ottanta, quando tornarono dopo la “Terza Guerra Mondiale” che li aveva di fatto sciolti, hanno imparato a capitalizzare: la loro stagione commerciale sarebbe poi durata fino ad oggi, un altro quarto di secolo. “Noi non finiremo la storia con un ritiro, per noi sarà diverso”. I vetri non spariscono, i vetri galleggiano sul tempo in eterno. Quando non ci saranno più ci saranno ancora perché hanno avuto cura di comporre tanto da esistere postumi per un altro secolo. Ma adesso non curiamocene, adesso aspettiamo quello che deve arrivare, “La vetreria apre tra pochi giorni: se qualcosa si rompe non arrabbiarti: aggiustalo”. Parlano di loro? Nascondono titoli di canzoni? Sì, certo, lo scopriremo solo vivendo, però che meraviglia questa eccitazione di nuovo, e che bella sensazione questo sprazzo di domani avvolto in un annuncio che pare uscito su un giornale di 60 anni fa. Perché il tempo non aspetta nessuno, ma se è dalla mia parte allora non mi fermerò mai.
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