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Torna Paolo Benvegnù ed è subito lezione di poesia

Il nuovo ep, "Solo Fiori", conferma una volta di più la caratura d'autore del nostro musicista migliore. Cinque pezzi dalle infinite sfaccettature nel segno di una poesia colta e straordinariamente ispirata. Senza inseguire stilemi di sorta, Benvegnù è solo se stesso.

04 Giugno 2023

Paolo Benvegnù

Bentornà, Benvegnù. Anche se non so dove sei. Sei come le tue canzoni, facile? No, complicato, prossimo? No, perduto, remoto? No, accanto, le sensazioni non hanno passaporto, quella voce si mangia le distanze. Ovunque sei. Ovunque vai. Lunga frequentazione ancorché frammentata mi lega a Paolo Benvegnù: adesso saranno tre anni che non lo sento, quattro da quando ci esibimmo insieme in un epico reading a Nervesa della Battaglia, Trevigiano puro, sala consiliare così piena che ci chiesero di tornare ma lui, tanto per cambiare, era già in fuga. Succedeva così, anni senza far niente poi il ritorno improvviso, quasi proditorio, e altri anni di latitanza. Succedeva così: io le mie parole sconnesse lui le sue canzoni apparentemente sconnesse, in realtà di sofisticatissima calibratura, in una sfida a chi emozionava di più. E c’era da essere incoscienti a salire su un palco con lui armati delle nude parole: Paolo è, resta sovrano di una canzone d'autore che ha vissuto il suo ultimo ricambio nei primi Novanta, quindi s'è inabissata; per cui non può che sopravvivere rinascendo sempre da se stessa, dalle proprie corde. Di Benvegnù, che è uno che se non ti vuole sentire stacca tutti i contatti, tutti i dispositivi, e va preso così, lui sparisce per tornare a tradimento, se vuole, quando vuole, a estro, oppure mai, d’improvviso ricevo così nuove e buone nuove che mi decido a scriverne: l’inaspettato Ep, appena 5 pezzi. Ma che pezzi!

Lo immagino più vecchio, siamo coetanei, più padre, io non ho figli, lui una bimba che cresce, meglio non pensare a quanto accelera il tempo, a quanto poco ne resta a noi figli di un altro secolo, come piace a lui chiamarci; e lo immagino più imploso nella ricerca d'assoluto che mi ha sempre proposto e quasi inflitto, lui ci è nato con questa esigenza, dissoluto d'assoluto dissolto. Forse chissà a scontare un'effimera giovanile stagione di promesse di successo ai tempi degli Scisma, quando giovane orrendo umano, nel suo stesso rimorso, contraeva tutti i virus della notorietà: si staccò in rampa di lancio, come lo stadio di un missile, sparì, tanto per cambiare, tornò. E non era più quello. E coltivava il dolore. Una nascita nuova, da zero, con quel disco stupefacente, “Piccoli fragilissimi film”, cui, un bel giorno, la stessa Mina avrebbe attinto: non capendone molto, ma le composizioni di Paolo sono speciali, richiedono delicatezza d’approccio e forza interpretativa, se le tiri via fai torto a te stesso. Da allora una crescita continua nel segno della fatica, pochi compromessi e troppa ostinazione nel ribadire tutto quel talento. La salute, le disillusioni, notti di capodanno a vomitare su un pianoforte in penombra di una stanza. Canzoni che vengono, che volano. Dischi che in modo sommesso, mai sottomesso, restano nella storia.

Fermiamoci qua, approdiamo qua, a questo nuovo “Solo Fiori” che anticipa un prossimo disco lungo (non aspettare molto se sei in stato di grazia). C'è dentro di tutto. Ci sono i mille Benvegnù che non si sanno star zitti, che si agitano in un temperamento incapace di felicità e per questo tanto, tanto capace di erogarne, tra i chiaroscuri della melanconia. C'è l'invettiva amarissima e affilata di “Italia pornografica”, genialmente costruita su un'aria sbarazzina, dalla semplicità complessa, stacchi, cambi tonali, trasporti, scale discendenti, spirali che tornano al gradino zero per dipingere un paese disperatamente cialtrone, ferocemente molliccio. Ma poi segue questa “Non esiste altro”, impreziosita davvero dalla Malika Ayane che ha fatto i suoi passi falsi ma qui smette completamente i panni della sciuretta milanese per consegnarsi a una ispirazione nuova, presa per mano lungo viali d’incanto. Il tema è classico, è tenchiano, c'è l'autore di canzoni, non il cantautore, l’autore, che compone, che crea una bellezza tutta sua, squisito, largo, dolente, potente.

Ecco quindi “Our Love Song”, che ha un tiro démode, quasi garage, anzi senza quasi, risale per le nostre infanzie sballottate di boomber in suggestioni nere e fluo, anni Sessanta, Settanta, qualcosa che inseguono da tempo i Calibro 35, morriconiana, ma qui con infinita più grazia. Le ultime due sono lui e basta, sfaccettature di un prisma . Fin dai titoli fatti di fiori, delle amate date: “Tulipani”, con quella cifra inconfondibile, di lirismo elegante ed epica senza confini: un incanto d’amore in una stanza improvvisamente asfittica da dove filtra uno spiraglio d’illusione: “E io t’aspetterò per sempre...”; 27/12 che stringe fra onirismo e dramma, case che parlano la nostalgia e trasognate domande su un tempo che scorrendo ti consegna alle non risposte. Alla mancanza di soluzioni. E forse la risposta sta qui, è tutta nel non esserci. Fai bene Paolo a credere ancora all'impossibile, finché sai realizzarlo come nessun altro. Magari fatti sentire, a tempo perso, che non ne resta poi tanto, siamo figli di un altro secolo e dispersi, sconcertati ogni stagione di più col nostro respiro d’assoluto e la pesantezza di anni che volano e ricadono sulle spalle. Non farti aspettare per sempre.

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