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Con “Every Loser” Iggy Pop torna a far l'Iguana, ma l'effetto è straniante

Nessun guizzo, tanto deja-vu per un album proustiano. Ma i brani sono deboli e il suono è quello tipico da piattaforma social: non un classico ma un disco fuori dal tempo.

09 Gennaio 2023

Iggy Pop

Mai credere a un vecchio ex tossico: prima o poi, ci casca un'altra volta. Iggy Pop aveva lasciato capire che i tempi del delirio erano finiti, lo aveva ribadito con innumerevoli dichiarazioni e poi con un filotto di dischi riflessivi, escursioni in territori alieni quali la chanson francese e, meglio ancora, con quel bellissimo epitaffio per ogni gioventù che fu Free, sottovalutata gemma sulla scia del compagno di misfatti David Bowie, del suo congedo mirabile con Blackstar. E quell'ode straziante, desolata alla libertà doveva, parola di Iggy, restare il suo canto del cigno. Non passano tre anni e la vecchia Iguana ci riprova a modo suo. Quello di un impenitente casinista sopra le righe, ebbro di violenza sonora: signore e signori, ecco qui Every Loser, criptico titolo per un ritorno al punk, così è stato salutato. Iggy ci punta molto e si sta spendendo come mai prima sui social – perché oggi funziona così; in effetti l'anticipo di Frenzy lasciava pochi margini d'incertezza: staffilate di chitarre su un basso malsano e contorto e tutto il mestiere del vecchio rocker a sgorgare come una polluzione senile e per questo debosciata. Ma, alla prova dei fatti, questo diciannovesimo album in solo è interlocutorio, sfodera perplessità che non si consolano.

Questione di feeling, vale a dire di un suono che crea l'atmosfera: quello plasmato dal produttore-alla-moda Andrew Watt tradisce tutti gli intenti di cassetta, più pop che Iggy – il che succedeva già con l'ennesimo ritorno di Ozzy Osbourne. Un disco da ex Stooges non può avere una resa così pulita, anodina e peraltro compressa, per farlo fruire sugli smartphone e sulle piattaforme digitali. Mica è Elton John. Il parterre di suonatori intorno, poi, finisce di complicare le cose perché è tutta gente che arriva sparata dalla fine degli Ottanta – inizio Novanta, c'è il defunto Taylor Hawkins, Foo Fighters, e c'è Duff McKagan dei Guns and Roses e c'è Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers e i due Jane's Addiction Dave Navarro ed Eric Avery.

Ne deriva un disco di compromessi. Perché quando i session men hanno ego da gruppi affermati, non li metti da parte facilmente. Così, abbiamo un Iggy che si agita molto nel fare Iggy ma deve pure accogliere le sfumature, le suggestioni di tutti questi qua. Non è neppure un album così innocente: Pop lo ha concepito in modo da sfiorare, a volo radente, le sue innumerevoli epoche. Per una Frenzy che riporta dritta a un repertorio affine a Naughty Little Doggie (1995), rock arrembante ma senza conseguenze, c'è una Strung out Johnny che riecheggia appunto i Red Hot Chili Peppers elettronici (con tanto di autotune); abbiamo quindi una New Atlantis che sa tanto di Post Pop Depression, l'episodio del 2016 con Josh Homme (Queen of The Stone Age, Kyuss ecc.) in regia, una Modern Day Rip Off che insegue gli Stooges 1973 circa, con tanto di note di piano martellate, ma senza troppa convinzione, una Morning Show formato country rock, fino al primo spartiacque, The News For Andy, minutino cadenzato sul genere cabaret noir, una trovata che risale ad Avenue B del 1998. Da qui, il disco si sfilaccia irrimediabilmente; se Neo Punk può a tutta prima riportare a quel piccolo capolavoro che fu American Caesar, ma poi l'andamento si annacqua in atmosfere da Sum 41, misfatto già perpetrato in Skull Ring (2003), quanto rimane affonda nella wave e nel post punk anni Ottanta e perfino Settanta. O peggio: la successiva All The Way Down, muscolare e squadrata, pesca dal periodo Brick by Brick, hardrock radiofonico, assoli cialtroneschi; Comments retrocede addirittura a sapori New Order, a languori vaporosi e sintetici da The Idiot, a chiudere – dopo il secondo interludio, My Animus, in arpeggio discendente, roba sentita millanta volte perfino dagli Smashing Pumpkins – con la definitiva The Regency, speriamo non conclusiva in assoluto della produzione di James Osterberg in quanto trattasi di ballatina effettata ma senza grande effetto.

Arrivato in vista dei 76 incredibili anni, Iggy torna a dissociarsi: questo sono io, sembra volerci dire, e non posso farci niente. Da una parte il disadattato che si feriva sul palco e mandava sempre tutto a puttane, dall'altra l'intellettuale – lo è – curioso delle arti, esperto di letteratura e di geopolitica, che i professori al liceo pronosticavano “Presidente, se vorrai”. Non ha voluto. Ha voluto altro. Lo spirto guerrier ch'entro gli rugge ha avuto la meglio, la peggio, la qualunque e così la storia finirà, il più tardi possibile. Certo però che mette un vago strazio questa schizofrenia di chi non ha saputo liberarsi del doppelganger; c'era, l'altra sera in tv, un Renato Zero sdoppiato, da una parte il Renato nerovestito, dall'altra lo Zero Seduto, piumato capo indiano, e battibeccavano in mezzo alla conduttrice sorcina, Manuela Moreno: trovata psico-tele-scenografica grottesca ma non da buttare, perché vi si dicevano cose anche intriganti: la perenne dissociazione tra l'uomo e l'artista che patiscono certe maschere teatrali, destinate a litigare con se stesse per l'eternità: e rischiano, si scavano più dei cantautori politici, che, in definitiva, portano sulla scena chi sono. Gli Iggy e gli Zero, no: loro patiscono quel crescere sempre a strappi, quell'accelerare col freno tirato, e oggi sono uno, e domani sono l'altro e passano la vecchiaia tra saggezza e rimpianto, rassegnazione e orgoglio. Roba che distrugge e che, poi, lascia sfornare dischi compromessi come questo. In Every Loser, adesso il titolo si capisce meglio, ci sono tutte le sconfitte di Iggy e c'è un continuo deja-vu autocelebrativo, poco convincente, poco appassionante; nessuna sorpresa, nessun guizzo, manca l'eccitazione che per uno come Iggy Pop è tormento e delizia: se condanna a ripetersi dev'essere, almeno sia con qualche presupposto, non con un album che non resta, che dura più dei suoi 38 minuti per abbandonarsi al gioco dei tempi perduti. Un disco proustiano dove anche la volgarità sa di rancido: “Ho un cazzo e due coglioni, più di quello che hai tu”: santo cielo, ma dici sul serio? La pena di trovare ancora il vecchio reprobo preda di se stesso, inchiodato alla sua danza macabra, il petto nudo e flagellato, la pancia ormai ceduta sui jeans a vita bassa, gli occhi fuor dalle orbite della ragione, anche dopo morto. “Divertente”, lo ha definito certa stampa specializzata. Ma qualcosa del genere può chiamarsi divertente?

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