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Natale 2022 all'insegna dei vecchi tormentoni: John Lennon, Mariah Carey, George Michael. Come se mezzo secolo non fosse mai passato

Le ragioni non sono solo artistiche: ogni canzone finisce per riflettere in certo modo anche il suo tempo, e tra i '70 e gli '80 era ancora possibile schierarsi, illudersi, capire. Oggi tutto sembra privo di senso e di prospettiva.

27 Dicembre 2022

Last Christmas dei Wham!

Alzi la mano chi, anche sotto questo Natale, non ha levato gli occhi al cielo: non per cercare Santa Klaus con le renne, ma esasperato dai soliti tormentoni che resistono da mezzo secolo. Tre, massimo quattro: il Natale antimilitarista di John Lennon, votato alla causa del pacifismo noiosissimo insieme a quella strega giapponese; quello, più disimpegnato, degli Wham! di George Michael (“Lo scorso Natale ti ho dato il mio cuore”), misteriosamente assurto, grazie alla lobby gay già potente all'epoca, al ruolo di imprescindibile; l'altro della vajassona Mariah Carey (“tutto quello che voglio a Natale sei... tuuuu!”), con la colpa di avere originato almeno tre generazioni di versioni oscene, da karaoke; mettiamoci pure la filastrocca dei famosi, il dudeinoiscrismastaimedooo, che serviva poco alla fame nel mondo e moltissimo alla fame dell'ego delle superstar. Sempre questi, solo questi. Da ogni altoparlante di strada, programma televisivo, radiodiffusione da supermercato. Parafrasando Billy Mack: oh no, ancora questa merda, nooo! Sì che viene da domandarsi: ma possibile, dopo quaranta o cinquant'anni? Ma non ha girato infinite volte nel frattempo il mondo?

Certo che sì, e la questione sta proprio qui. Sarebbe fin troppo facile limitarsi all'ovvio, alla lettura pleonastica: girano ancora queste canzoncine perché non c'è di meglio, ovvero meglio l'esplosione di energia, finta, rapace, ma ben congegnata, di questi delle lagne degli ectoplasmi indie; ma te lo figuri, tu, un Natale cantato dai Gazzelle, le Madame, la paracula del vaccino con la spalla degli altri, le Elodie, i Sangiovanni, Ariete, Mollusco, Cavalluccio Marino e Diodato? Ma questi non sono artisti, sono propagandisti del Piddì che ti gonfiano due palle così. Mesti, poi, sembrano usciti dalla mensa dei poveri, zero carisma, il ribellismo di questa Madame consiste nell'insultare l'incauto fan che le chiede il selfie e rubare un greenpass.

Però, attenzione, anche una cosa innocente come un tormentone finisce per riflettere il momento storico, come si dice. Unicuique suum. All'epoca stare dalla parte giusta era facile, o almeno più facile: per i comunisti la parte giusta era comunque e sempre contro l'America, per i reazionari era al suo fianco o sotto di essa. Nel 1971 “War” non era affatto “over”, ma il fallimento della campagna militare americana in Vietnam si era già compiuto: uno sfascio completo, le cui conseguenze gli Stati Uniti non avrebbero mai finito di assorbire. La prima picconata l'aveva data 4 anni prima Muhammad Ali, il pugile renitente, con quella frase pronunciata o messagli in bocca - “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”. Gli tolsero il titolo, gli impedirono di combattere, finì sul lastrico e anche, brevemente, in galera. Ma quando, proprio in quel 1971, torna, per reclamare la corona contro Joe Frazier (che si impose, negandogliela), è già trasfigurato dal ruolo di vigliacco a quello di eroe, moltissimi fra i suoi detrattori lo hanno riabilitato per il semplice motivo che le cose non sono andate come speravano. Lennon col suo inno antimilitare, in effetti antiamericano, arriva 8 mesi dopo, ma, di fatto, si limita a cantare di una situazione ormai definita, anche se la presenza dei soldati statunitensi nello stato asiatico permarrà ancora a lungo.

Nel decennio successivo lo scenario è (ovviamente) mutato, c'è un'altra effervescenza: archiviata l'era dell'Aquario e dei grandi temi politici, si è tornati ad un individualismo spietato – che, in realtà, allignava già dalla decade precedente. Lo chiamano riflusso, è una reazione, c'è chi dice orchestrata, c'è chi sostiene fisiologica, contro la politicizzazione ossessiva del passato recente. Sono anni in cui si percepisce la novità nell'aria del mondo, l'idea che l'impero sovietico sia agli sgoccioli, come difatti si capirà già a metà decennio col crollo delle repubbliche-satellite. Ancora una volta, schierarsi è facile: perfino molti comunisti della prima ora esultano – sono ipocriti e opportunisti, è chiaro – al crollare del Muro, travolto dai colpi rabbiosi e felici di infiniti nessuno, sudditi che sperano di tornare liberi cittadini. Per chi ha abbastanza tempo addosso, quei Natali là ricordano, sia pure in modo distorto, i Natali d'oro dei Sessanta e le canzoncine che li celebrano sono esplosioni di vitalità, di opulenza, di speranza. Ovviamente la “fine della storia”, profezia attribuita al sociologo Francis Fukuyama, non c'è, non almeno nei termini, troppo schematici, nei quali molti la vollero individuare. Ma quelli sono anni in cui molto sembra riordinarsi per il meglio.

Oggi la situazione è definitivamente più complicata, per non dire incasinata. Veniamo da traumi inaugurati col nuovo Millennio: le Torri Gemelle del 2001, le crisi cicliche, la prima nel 2008, puntualmente incomprese o occultate dagli economisti, fino a un virus che resta misterioso, all'antivirus sul quale non si è mai saputo molto di più, ai lockdown che rendono l'Occidente un immenso esperimento concentrazionario di stampo cinese (inutile, devastante), ai ricatti dei lasciapassare, alle alienazioni indotte di massa; ultima fermata, un nuovo choc energetico, affilato ma non originato dall'invasione russa dell'Ucraina. Qui, i piccoli sparafucile della propaganda pacifista, in effetti filoputiniana, tradiscono una ignoranza dei fatti geopolitici pari, forse, solo alla malafede: hanno gioco facile nell'additare Zelensky, personaggio ambiguo e insopportabile, ma il punto è che se Putin sfonda, se il popolo ucraino non resiste, ne discendono conseguenze (per loro) inimmaginabili a dimensione globale. Le emergenze sono diverse ma intrecciate: energetica diretta (gas, petrolio, rinnovabili, controllate queste ultime dal Dragone), energetica derivata (i microconduttori che fanno funzionare strumenti sempre più irrinunciabili: a partire dalle auto elettriche), alimentare (non c'è crisi di risorse, anzi c'è un surplus, che però non si riesce a smaltire per enormi guasti nel trasporto e nella distribuzione, oltre che per ragioni ciniche di speculazione, come fa l'India), bellico, infrastrutturale (l'Africa, del cui perenne sottosviluppo piace all'Occidente incolparsi, è controllata da almeno due decenni da Cina e, in subordine, paesi Arabi e altri “emergenti”), e l'elenco potrebbe continuare.

Quello che è certo, e che basta osservare qui, è che sfondando Putin in Ucraina, e Xi a Taiwan, che produce tuttora il 62% dei microchip di ogni livello, i bambini viziati del reddito di cittadinanza chiudono immediatamente la loro carriera di poltroni. E anche i tormentoni se li possono sognare: Xi è un leninista fatto e finito, Putin uno zarista cresciuto nel comunismo sovietico e insieme queste due sottoculture fanno una ideologia nazionalista non scalfibile: lo esaltano le estreme di destra e di sinistra, quest'ultima nel nome del laicismo antioccidentale; sorvolando sul fatto che la saldatura dell'autocrate del Kremlino con l'ortodossia religiosa del patriarca Kirill prevede una rigida separazione dei ruoli uomo-donna (altro che il nonbinarismo fluido delle Madame e delle Schlein), con la donna in posizione subalterna e gli omosessuali da “rieducare” o rimuovere: difficilmente, cantanti natalizi come George Michael e Elton John sarebbero potuti diventare superstar sotto le dittature sinorusse.

È maledettamente più problematico, oggi, scegliersi una parte, militare in una parte: la complessità del mondo si è dilatata in una miriade di contradditorietà, se “stai con” gli ucraini ti confronti con l'avidità esibizionista del loro capo, se scegli Putin allo stesso tempo decidi di sottostare alle sue logiche deliranti, ad una propaganda che disinforma scientificamente (non che nell'America di Twitter e Facebook siano messi molto meglio: ma almeno hanno qualche anticorpo e gli scandali emergono, fanno discutere, cambiano qualcosa). All'inverso, scegliere la Nato, come hanno fatto, liberamente, Svezia e Finlandia, come intende fare la stessa Ucraina, è una opzione comprensibile data la minacciosa intraprendenza post sovietica, ma anche una apertura di credito a quella colossale opera di ridefinizione sociale che va sotto il nome di Agenda 2030, con le armi perverse del politicamente corretto, del woke, della cancel culture. Il dramma dei nostri tempi, a ben vedere, è proprio questo. Che, come ti butti ti butti, sembri destinato a perdere autonomia – di pensiero, di fede, di espressione, di scelta individuale. Una terza via è più improbabile di prima: puoi sottrarti all' “imperialismo americano”, in effetti in disuso da anni (e difatti incolpano gli Stati Uniti anche di questo, e perfino dell'espansionismo cinese e russo, sempre più spinti), ma al prezzo di consegnarti a quelli orientali ed estremorientali: e forse la prospettiva è peggiore. Puoi dirti di destra, ma al costo di constatarne la modestia prospettica, in continuità col regime bancario del grande menzognero; puoi ostinarti a sinistra, ma devi accettare il pacchetto completo, compresi i truffatori alla clan Soumahoro o i riciclatori di sacchi di banconote come Panzeri, Eva Kaili, le ONG di assai presunti benefattori, i cantanti conformisti con maschera e vaccini (autentici o farlocchi). Comunque ti sistemi, sarai aggredito da istanze non tue, favorite da un Suicidio Occidentale (il copyright è di Fererico Rampini) che lascia una alternativa davvero magra: soccombere brutalmente, per invasione oppure dolcemente, per contagio culturale. Oggi sembra davvero “la fine della storia”, quanto meno nel senso delle utopie, le illusioni, le speranze residue. Tutto sembra inutile, destinato a sicura vanità. Il futuro ha un cuore ammuffito, più che antico, e, peggio di tutto, non ha un'anima. Il Natale lo si cerca nelle pieghe dei vecchi evergreen, quando una canzone non la scriveva un algoritmo, i social erano sinonimo di stare insieme e la globalizzazione era una dimensione carica di prospettive anziché di delusioni.

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