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I Racconti di Giulio. Capitolo XIII: Donatella

Il tredicesimo capitolo de "I racconti di Giulio - Frammenti"

12 Novembre 2022

I Racconti di Giulio. Capitolo XIII: Donatella

fonte: pixabay

Giulio ancora non si rendeva conto di come si era ritrovato, alla sua non più verde età, così coinvolto per quella
giovane donna. Coinvolto a tal punto che al solo immaginarla, si sentiva ribollire dentro di un desiderio così intenso, così giovanile e incosciente, come non gli accadeva
ormai da tanto tempo.
Lei irrompeva improvvisamente nei suoi pensieri, con
prepotenza, quasi materializzandosi nella sua solitaria vita;
Giulio ne ricordava fortemente il profumo, la morbidezza
della giovane pelle, il calore del suo abbraccio, sognava il
sapore di baci mai dati. Quelle sensazioni erano una realtà
evidente e innegabile, anche a se stesso.
Dopo il loro primo e unico incontro, la faccenda aveva
avuto degli sviluppi e ormai da quasi un anno il rapporto
era diventato quotidiano e sempre più intrigante. Pletore
di interminabili messaggi, qualche telefonata e qualche videochiamata. La loro intimità cresceva giorno dopo giorno,
così come il desiderio di Giulio. avevano progettato e immaginato tanti incontri, tanti momenti da vivere con passione e con amore. ogni occasione, però, era sfumata
portando con se delusione e generando dubbi, erano solo
coincidenze quelle che, all’ultimo momento avevano impedito loro di incontrarsi? o forse non esisteva nessuna volontà da parte della donna di incontrarlo e di far evolvere
il rapporto su un piano più concreto e carnale.
Giulio aveva incrociato Donatella casualmente nella sua
città. Dopo anni passati a girovagare da un luogo all’altro,
l’uomo era ritornato alle sue origini e alla sua storia. Lei
era arrivata dal mare come una sirena, sbarcata da una
nave da crociera, smarrendosi nell’intrigo di viuzze e vicoli
del centro storico, alla ricerca di una famosa piazzetta. il
distinto e maturo signore che se ne stava seduto, solitario,
all’unico tavolino di quel piccolo bar, le aveva suscitato subito un senso di spontanea fiducia. avrebbe chiesto a lui le
indicazioni per raggiungere la sua meta. Giulio l’aveva subito notata appena era comparsa nella stretta stradina in
cui tutte le mattine si fermava per bere un caffè, dare un’occhiata al giornale e osservare quel po’ di mondo che gli
passava davanti. L’apparizione di quella donna sembrava
avesse portato con se una ventata di primavera carica di
profumi e di luce, che inondò il vicolo deserto trasformandolo in un giardino profumato. Sarà stato l’abito che indossava, dai grandi fiori sgargianti o una folata del suo
profumo che il vento aveva portato fino a lui, ma Giulio
ebbe un fremito, un’antica e forte emozione; qualcosa lo
aveva raggiunto, qualcosa d’inspiegabile, come un’onda di
energia che attraversava tutto il suo corpo.
Lei era bellissima! i lunghi capelli corvini incorniciavano
un volto dall’ovale perfetto, la pelle appena scurita dal sole
le dava un tocco esotico e le forme piene e sensuali erano
l’incarnazione della bellezza mediterranea.
Appena sbarcata, avevo lasciato quasi subito il plotone dei crocieristi in visita alla città siciliana, prima tappa della mia vacanza, avventurandomi da sola nella zona vecchia della città,
girovagando alla ricerca di una famosa piazza, perdendomi, ovviamente, in un dedalo di viuzze e vicoli deserti per la giornata
festiva; ero stanca e assetata. Non avevo incontrato anima viva,
nessuno cui chiedere informazioni, nemmeno un negozio aperto,
un bar dove riposarmi e avere indicazioni in merito alla mia mèta.
Ormai ero demotivata e quasi pentita di essermi staccata dal
gruppo disciplinato di turisti che seguivano obbedienti l’hostess.
Ho sempre avuto, fin da bambina, uno spirito libero, ribelle, sempre stata una fuori dal coro e non mi piace confondermi nella
massa anonima. Ho sempre avuto bisogno del mio spazio, di ragionare con la mia testa, anche a costo di sbagliare, di commettere
errori a volte irrimediabili. Imboccai la stradina che si apriva alla
mia destra, attirata più dall’ombra che finalmente riusciva a vincere l’afosa calura del mattino, piuttosto che dal mio scarso senso
d’orientamento. La fortuna mi aveva aiutato; notai immediatamente il maturo e solitario signore che, seduto all’unico tavolino
di un piccolo bar della via, sfogliava distrattamente un quotidiano. Finalmente qualcuno e un posto dove rifiatare prima di riprendere la mia ricerca. Mi diressi decisa verso di lui,
accompagnata da un senso d’istintiva fiducia che quell’uomo mi
trasmetteva; emanava, infatti, qualcosa di particolare, di paterno,
la mia sensibilità di donna mi suggeriva che dietro quell’espressione seriosa e concentrata, si nascondeva un animo gentile.
Da un leggero movimento del suo capo, capii che aveva notato
la mia presenza nel vicolo; i nostri occhi s’incrociarono per un
breve momento, quasi ci fosse già una laconica intesa tra noi due,
mentre il suo viso, fino allora teso e concentrato nella lettura, si
distendeva in un accenno di sorriso. Quando fui a pochi passi dal
piccolo tavolo di marmo, lo vidi ripiegare il giornale, abbandonare
la sedia e alzarsi. Sembrava quasi mi aspettasse, come se quell’incontro lo avessimo da sempre concordato. Doveva avere una
sessantina d’anni, magro con i capelli candidi, gli occhiali che gli
davano l’aria di un vecchio professore in pensione; il suo viso
aveva una familiarità che mi dava l’impressione di conoscerlo da
sempre, di sapere quali fossero i suoi pensieri, di leggere cosa nascondeva quell’animo sconosciuto. I segni che il tempo gli aveva
lasciato addosso, mi parlavano di un vissuto non banale, segnato
forse da chissà quali sofferenze e delusioni. Quegli occhi stanchi,
ma ancora vivi, dovevano aver visto tante cose, registrato momenti di vita, gioie, delusioni, versato lacrime.
Nonostante la mia giovane età, ho da poco superato i quaranta,
credo di avere sviluppato quella sensibilità tutta femminile che
spesso mi consente di leggere, oltre le apparenze, nell’animo delle
persone. Soprattutto, quello degli uomini... una parola, un gesto,
un’occhiata furtiva, mi bastano per disegnare i contorni di una
personalità, di un carattere, smascherandone spesso l’ipocrisia,
la falsità, la malafede. Spessissimo, il desiderio.
Uno scalpitio di passi attirò l’attenzione di Giulio facendogli alzare gli occhi dal quotidiano che stava sfogliando.
La vide che aveva appena svoltato l’angolo, mentre si avvicinava verso di lui, con l’espressione dubbiosa che si andava trasformando, passo dopo passo, in un sorriso
irresistibile, che illuminò, come una luna piena in una notte
d’estate, la penombra del vicolo. Giulio chiuse il giornale
posandolo sul tavolino e quando lei fu a pochi passi, con
un gesto galante, lasciò la sedia accogliendola in piedi.
“Buongiorno!” esordì la donna porgendogli la mano e dipingendo il suo viso con l’espressione d’innocente e infantile smarrimento, “per piacere, potrebbe aiutarmi... ho perso
l’orientamento in questo intrigo di stradine. Sa dirmi dove mi
trovo?” concluse, mentre gli porgeva la piantina della città
che ancora teneva in mano e, con intraprendenza, occupava la sedia accanto a quella di Giulio. La stretta della
donna, nonostante i tratti delicati delle dita, era forte, decisa e persistente. Le loro mani, infatti, indugiarono a separarsi, quasi volessero studiarsi, parlarsi. Un insolito
brivido si arrampicò su per la schiena dell’uomo. Pronunciò quelle parole in un italiano perfetto, anche se a Giulio
non sfuggì una lieve inflessione partenopea; adesso si trovavano seduti vicinissimi, uno accanto all’altra, con il piccolo tavolino rotondo a fare da baluardo, ma subito
abbattuto quando Giulio si chinò per osservare da vicino
la piantina che adesso copriva parte del tavolo. Le loro teste
quasi si toccavano, i lunghi capelli della donna solleticavano delicatamente il braccio nudo di Giulio provocandogli conosciuti brividi, mentre il suo fresco e seducente
profumo, che sembrava sgorgare prepotente dalla stretta
fessura che separava i suoi seni pieni, gli arrivava dritto al
cervello stordendolo. L’uomo le indicò sulla mappa il
luogo dove si trovavano e il percorso più breve per raggiungere la tipica piazzetta non molto distante, poi la ripiegò liberando il tavolo. afferrò la piccola caraffa
appannata che in Sicilia accompagna immancabilmente il
caffè e ne riempì un bicchiere porgendolo alla donna, “beva,
credo ne abbia bisogno!”, le disse con un tono di voce dolcemente paterno. il liquido ancora fresco sembrò rianimare
la donna, tirò fuori dalla capiente borsa una salvietta rinfrescante che passò sulla fronte luccicante per il sudore.
“Grazie mille, ero veramente assetata, lei è davvero molto gentile” gli disse con una vocina ammiccante che esprimeva
tutta la sua potente femminilità. iniziò a raccontargli di
come fosse in vacanza con un’amica, che dopo una notte
di malessere per la traversata agitata, l’aveva costretta a
letto e a rinunciare all’escursione. Si era quindi ritrovata
malvolentieri a seguire un gruppo di sconosciuti, fin
quando, insofferente, lo aveva abbandonato, smarrendosi.
il caso l’aveva portata fino a quel vicolo e a lui. “La prima
volta che visita la Sicilia?” chiese garbatamente l’uomo. “Sì,
da qualche tempo desideravo conoscere la vostra splendida isola
e finalmente sono qui!”. “Allora non avrà mai avuto l’occasione
di gustare una vera granita siciliana!”, proseguì, e senza attendere la sua risposta, si rivolse al cameriere che sostava
sulla porta del bar, tracciando con la mano misteriosi segni
nell’aria.
“Questa è l’occasione giusta e il posto giusto ". il ragazzo,
che aveva perfettamente interpretato le incomprensibili
evoluzioni della mano di Giulio, arrivò, poco dopo con un
vassoio, depositando sul tavolino un bicchiere dai bordi
svasati, per metà riempito di granita di caffè, sovrastata
dalla soffice e candida panna. Un contrasto che, nella sua
eleganza cromatica, fondeva la freschezza e il forte sapore
del caffè, alla dolcezza discreta ma corposa della panna. in
un piccolo cestino di vimini, adagiata su un candido tovagliolo di cotone, la caratteristica brioche da mangiare con
la granita. Una sorpresa dopo l’altra! Giulio voleva stupire
la donna, incantarla con qualcosa che certamente avrebbe
apprezzato, ricordato e associato a quell’incontro. Lo esigeva il senso di ospitalità e galanteria di Giulio.
La granita, aveva bisogno di alcune istruzioni per essere
gustata al meglio. Esistono diverse scuole di pensiero su
come trarre il massimo del piacere contenuto nel tipico bicchiere dai bordi svasati. Giulio, per non perdersi in disser-
tazioni inutili, le indicò il suo collaudato metodo. Le suggerì di staccare la pallina di pasta in cima alla brioche, di
spezzarne un pezzo e raccogliere, come fosse un cucchiaio,
un po’ della panna in cima al bicchiere. La donna si lasciò
guidare e il boccone sparì rapidamente nella sua bocca. Donatella chiuse gli occhi, quasi volesse concentrarsi su
quell’esplosione di sapori che le inondava il palato, li aprì
per regalare a Giulio uno sorriso che esprimeva tutta la sua
soddisfazione. La fase successiva, spiegava Giulio, consisteva nell’affondare il cucchiaino fin sul fondo del bicchiere, creando così una sorta di canale verticale che
arrivava dritto al caffè e che riemergendo si mescolava alla
panna insaporendola. La terza fase consisteva nell’immergere in quel cunicolo un altro pezzo di brioche. il contrasto
tra la panna e la granita gelida, la fusione dei due sapori,
la consistenza cremosa del composto, strappò alla donna
nuove espressioni di gioioso piacere. Giulio non le disse
altro, in silenzio la guardava intingere con perizia nel composto piccoli pezzi di brioche, concentrata su quella gustosa e fresca novità. Donatella aveva imparato subito la
tecnica, sembrava lo avesse fatto da sempre, proprio come
una vera siciliana. Giulio la osservava compiaciuto, cogliendo in lei la gioiosità della bambina che si portava dentro: un entusiasmo spontaneo e goloso.
Quest’uomo sembra leggermi nel pensiero! Pensavo, mentre
affondavo nella granita, ormai diventata una mélange l’ultimo
pezzo di quella morbida brioche. Come se l’uomo avesse capito
quali erano le mie necessità: la sete che mi seccava la gola e quella
mia golosità spesso incontrollata. Lo osservavo, tra un boccone e
l’altro di quella prelibatezza, guardarmi silenzioso, con un sorriso
appena accennato, compiaciuto per gli apprezzamenti che i miei
occhi gli inviavano continuamente. Mi stava chiaramente coccolando.
Come una figlia? Una moglie? Un’amante? Non avevo letto
nei suoi occhi, nemmeno per un attimo, tantomeno nel suo modo
di fare, nulla di malizioso, niente che potesse farmi pensare, come
spesso mi era accaduto, che potesse avere scopi diversi da quello
di manifestarmi la sua ospitalità. Fidarmi di lui fu una cosa naturale. La granita mi aveva rigenerato, nel corpo e nella mente;
leccai dalle mia labbra l’ultima traccia di sapore, vi passai un tovagliolino di carta e poi feci ciò che avrei dovuto fare prima, “Donatella”, mi presentai riporgendogli la mano. Tese la sua
stringendo la mia con delicata forza, indugiando entrambi nella
stretta. “Giulio, Giulio Dagnino” rispose.
Pronunciò il suo nome con lentezza, scandendo ogni sillaba,
come se volesse imprimerlo indelebilmente nella mia memoria.
Gli sciorinai una sequela di sinceri ringraziamenti per la sua
ospitalità, di apprezzamenti per la bontà che avevo appena finito
di gustare, per la sua gentilezza.
Sembrava quasi imbarazzato per tutti i miei entusiastici commenti, asserendo che chiunque altro si sarebbe comportato allo
stesso modo, che, in Sicilia, l’ospitalità è innata nella natura dei
suoi abitanti.
Giulio si chiese: ma cosa gli stava accadendo? Quale potere magico, quale misteriosa alchimia possedeva quella
donna, capace di scatenargli tali incontrollate e prepotenti
emozioni; lui che da tempo si era imposto di guardare il
mondo femminile da estraneo e di vivere la sua vita senza
la presenza del gentil sesso. Dov’era finita quell’impassibilità, quel gelido distacco, quella prudente cautela che
nemmeno altre bellissime e desiderabili donne avevano
avuto il potere di vincere?
Giulio si stava ancora leccando le profonde ferite dell’ultima e insensata storia che aveva vissuto. La fine di
quella brevissima ma bruciante relazione non l’aveva digerita; tutto quell’inganno, quell’abbandono così repentino
e inspiegabile, lo aveva distrutto. il suo orgoglio, poi, ne
era uscito duramente provato e la sensazione di essere stato
usato come un giocattolo, del quale la donna si era presto
stancata e gettato via, lo tormentava ancora. La ferita immeritata che gli era stata inflitta e che si aggiungeva impietosamente ad altre, non si era ancora rimarginata.
Finita la granita, che mi aveva lasciato in bocca un piacevolissimo sapore di caffè, Giulio iniziò a raccontarmi la storia di
quel particolare vicolo dove aveva passato buona parte della sua
infanzia, abbandonandosi alla descrizione di com’era un tempo,
tanti anni prima, e di come la vita lo aveva portato a doverlo lasciare, a vivere in altre città, a confrontarsi con altre culture senza
mai dimenticare le sue origini. Ero affascinata dai suoi racconti;
il tono della voce pacato e lento mi aveva messo subito a mio agio;
la meticolosità con la quale descriveva le sue emozioni, mi faceva
vivere le stesse sensazioni come se le avessi vissute in prima persona. Lo avrei ascoltato per ore e ore.
Mentre le sue storie si succedevano, da dietro le lenti i suoi
occhi fissavano costantemente i miei, li attraversavano scavalcandoli per sprofondare nel mio animo, quasi a voler leggere i
miei pensieri più intimi, i miei sogni, le mie pene. Erano occhi
indagatori, esperti, senza dubbio capaci di trovare le pagine più
nascoste nella mia coscienza. Mi sentivo indifesa e nuda davanti
a quell’uomo appena conosciuto ma così diverso da tutti gli altri
che avevo incontrato. Distolsi lo sguardo per un solo attimo e,
con un gesto istintivo, posai la mia mano sulla sua, come per interrompere quel flusso di emozioni che investiva il mio animo. Si
ammutolì di colpo con un’espressione in viso che non riusciva a
mascherare la sorpresa, forse una sorta d’imbarazzo; guardò la
mia mano che copriva la sua e sorridendo impacciatamente, la ritrasse per afferrare il pacchetto delle sigarette. “Le da fastidio
se fumo?” mi chiese, mentre ne tirava fuori una. Poi mi chiese
quando sarebbe ripartita la nave e se volessi visitare la piazzetta.
Avevo ancora un paio d’ore prima che la nave chiamasse a raccolta i crocieristi sbarcati. Un paio d’ore che, avevo deciso, avrei
passato con lui, in quel piccolo e fresco vicolo, lontana da tutti,
lontana dalla mia vita e dai miei pensieri.
Erano state settimane veramente stressanti quelle che mi avevano portato a dare un taglio netto a tutto e a prendere la decisione di regalarmi una vacanza. Non ne potevo più! Il carico di
lavoro era diventato sempre più pesante, insieme alle responsabilità che ne conseguivano, il bigottismo e l’invidia dei miei colleghi per le mie capacità sfiorava il mobbing. E quella corte
asfissiante, appiccicosa al limite dello stalking, del mio capo, con
le sue volgari avances, avevano portato oltre ogni limite la mia
sopportazione. A casa, poi, mi attendeva un altro inferno fatto di
insinuazioni, di accuse, di sospetti. Di violenti litigi. Così una
mattina, esasperata, avevo chiamato Mara, una mia amica d’infanzia che aveva avuto il buon senso di restare single, e le avevo
proposto di partire insieme. Detto fatto; prenotata al volo una
crociera last minute, eravamo fuggite quasi alla chetichella, igno140
rando i rimbrotti del capo e l’ennesimo attacco di gelosia di mio
marito. Una settimana in giro sul mare, sprofondata nell’ozio,
dimenticando tutto e tutti, alla scoperta di posti nuovi, per riempirmi gli occhi con i colori struggenti di un tramonto, sola con
me stessa. Anche la presenza di Mara, a volte, m’infastidiva, perché mi ricordava tutto ciò che per qualche giorno avrei voluto dimenticare ma che presto avrei ritrovato.
Giulio aveva tentato blandamente di convincerla a fare
un salto nella piazzetta poco distante, ma si era arreso
quasi subito davanti a quell’implicita adulazione che Donatella gli aveva lanciato, rispondendogli che preferiva restare li, con lui, nella frescura e nel silenzio di quell’antica
stradina, ascoltando i suoi racconti. Era affascinata, gli
aveva detto, per quel suo modo così pacato di parlare che
la faceva sentire serena e in pace con se stessa. Giulio le raccontava stralci della sua vita, descriveva luoghi, persone,
sensazioni e Donatella lo ascoltava rapita, senza interrompere la sua narrazione, mentre nella sua mente si materializzavano luoghi mai visti, atmosfere mai vissute.
Lui non le toglieva gli occhi di dosso, anche se non la
fissava più con insistenza, il suo sguardo, però, indugiava
su alcuni particolari, dal sottilissimo filo d’argento che reggeva l’iniziale del suo nome, alla fede sulla sua mano sinistra. notava le espressioni del suo bellissimo viso, disteso
o crucciato, incuriosito o meravigliato a secondo di ciò che
Giulio andava raccontando; o l’esplosione improvvisa di
una sonora risata per qualche ironico commento di Giulio,
così che i suoi denti di perla potessero risplendere in tutta
la loro bellezza. La sua bocca, le sue labbra piene, che ogni
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tanto si mordicchiava o leccava con un gesto veloce della
lingua. Le piaceva tutto di quella donna e ne voleva ricordare ogni particolare per inciderlo nella sua memoria, scolpirlo per sempre nel cuore.
La suoneria dello smartphone mi fece quasi sobbalzare dalla
sedia, come se avessi ricevuto una scossa elettrica, riportandomi
repentinamente alla realtà; con l’espressione dispiaciuta del viso
mi scusai con Giulio, che socchiuse gli occhi in cenno di assenso,
e risposi alla chiamata. Trovai a Mara una scusa per troncare sul
nascere uno dei suoi interminabili bottoni e misi giù il telefono.
La realtà, adesso, mi diceva che mancava solo una mezz’ora alla
partenza e che quanto prima, la sirena della nave avrebbe urlato
il suo drastico richiamo. Il tempo era passato veloce, troppo veloce, e tra non molto tutto sarebbe finito: quella magia che le parole dello sconosciuto era riuscito a creare, sarebbe svanita
irrimediabilmente, forse non avrei più risentito quella voce che
mi era entrata dentro l’anima riempiendola di profonde vibrazioni. Per lo sconforto, senza rendermi conto, poggiai nuovamente la mia mano sul dorso di quella di Giulio; non la tirò via
come prima, si girò invece a guardarmi dritto negli occhi, con
l’espressione consapevole e rassegnata, mentre la sua mano, capovolgendosi, s’intrecciava alla mia stringendola. “Posso accompagnarti fino all’ingresso del porto?”, mi propose quasi
avesse capito il dispiacere che provavo nell’andare via, anticipando la mia richiesta che era lì, ferma sulla punta della lingua.
“Si, certo” risposi. Ci avviammo per quel dedalo di stradine ombrose fino a quando imboccammo il vialone assolato che scendeva
giù fino al porto. Tutta la gente che per ore non avevamo incontrato in quel vicolo, adesso sembrava essersi raccolta di colpo in
una folla eterogenea di gente da scansare. Con la scusa di temere
di perdermi tra la gente, mi aggrappai al suo braccio come ad una
boa di salvataggio e di buon passo, così allacciati, fianco a fianco,
raggiungemmo la sbarra che bloccava l’ingresso al porto. Ecco!
Ero arrivata, ancora pochi passi, un ultimo saluto, magari una
promessa e poi tutto sarebbe appartenuto al passato.
Il commiato fu triste, ricco di parole non dette, parlavano solo
i nostri occhi, le nostre mani intrecciate che sembravano non volersi staccare, quel sorriso forzato e innaturale che mascherava
tutto il dispiacere di lasciarci.
“Grazie” gli dissi, “grazie di tutto, per la granita, per
l’ospitalità e per i bei momenti che mi hai fatto vivere”.
Feci solo pochi passi oltre la sbarra che Giulio non poteva superare, poi mi fermai di colpo, tirai fuori dalla borsa il telefono e
tornai indietro. Lui era ancora li, mi aveva seguito con lo sguardo
mentre mi avviavo verso la scaletta, notai la sua faccia sorpresa
mentre mi avvicinavo nuovamente a lui.
“Dettami il tuo numero di telefono” gli chiesi senza mezzi
termini, Giulio attese un attimo, titubante e sorpreso da quella
perentoria richiesta prima di dettarmi, cifra per cifra, il numero
del suo cellulare. Sulla scaletta, accodata a una rumorosa famiglia
carica di pacchi e buste, mi voltai a guardare per l’ultima volta
la banchina, cercando il volto di Giulio tra i tanti altri a ridosso
delle transenne…non lo vidi, doveva essere andato via…forse
aveva un impegno…forse il caldo afoso lo aveva spinto a cercare
un po’ d’ombra o forse era stata la malinconia a farlo fuggire?
Giulio seguì Donatella con lo sguardo fin quando i fiori
del suo vestito si confusero e sparirono tra la folla che stava
per imbarcarsi. La foga di lasciare prima possibile il porto,
lo aveva fatto quasi correre e, districandosi tra la folla accalcata dietro le transenne, infilò la prima stradina deserta
e ombrosa. il passo adesso era diventato lento e pesante, il
respiro affannoso ancora per qualche decina di metri.
Poi l’uomo si fermò senza più forza nelle gambe, assalito
da un’ondata di malinconica tristezza, tirò un lungo respiro
per fare ordine nei suoi pensieri e arginare quell’assalto di
struggente nostalgia. Le mancava già, tanto, e la sua assenza gli creava un enorme vuoto interiore, una desolazione nell’animo, un’amarezza in bocca. aveva ancora il
telefono in mano e il numero di Donatella pulsava sul display. Lo memorizzò trattenendo la voglia irresistibile di
chiamarla, di confessarle tutto ciò che provava in quel momento. Le avrebbe detto che quelle due ore passate in quel
bar erano state un bellissimo sogno. Le avrebbe confessato
l’ebbrezza che il suo profumo gli procurava, ogni brivido
che lo aveva assalito a ogni suo sguardo, a ogni suo sorriso.
Le avrebbe sussurrato, no, no! Doveva invece dimenticarla,
il prima possibile, cancellare dalla sua mente ogni ricordo
di quelle ore passate insieme a lei nell’intimità di quel vicolo, non doveva più ricordare il suo sorriso, la sua voce, i
suoi occhi. Doveva convincersi che quella era una storia assurda, che gli avrebbe procurato solo sofferenze e problemi, speranze e illusioni che inevitabilmente sarebbero
crollate, con nuove dolorose ferite da curare, vivendo di
rimpianti e di fantasie. no, non lo avrebbe fatto, stavolta
sarebbe stato duro con se stesso, spietato. avrebbe controllato ogni suo istinto, avrebbe ragionato, lasciando da parte
il cuore, il desiderio, la nostalgia.
no, non poteva sbagliare ancora una volta.
negli ultimi giorni di ottobre, con l’estate ormai lontana
e le prime giornate cupe e brevi, Giulio preferiva occupare
un tavolino all’interno del bar, nella piccola e intima saletta
dietro la vetrata.
Quella mattina il tempo era proprio grigio e una leggera
pioggerellina faceva risplendere il lastricato di pietra lavica
che ricopriva il fondo del vicolo.
Giulio occupò il suo solito tavolino nella saletta interna
ancora deserta, poggiandovi il romanzo che aveva appena
comperato. L’uomo si sedette, era curioso e desideroso di
leggere qualche pagina dell’ultima fatica del suo autore
preferito. il posto era quello giusto: giusta l’atmosfera, giusta la luce, giusto il silenzio che regnava. aveva appena finito di bere il suo caffè quando dal telefono arrivò il cicalio
che annunciava l’arrivo di un messaggio. Prese lo smartphone dalla tasca interna della giacca, inforcò gli occhiali
da lettura e lesse sul display:” Donatella …”

Di Pippo Donato

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