03 Giugno 2022
fonte: facebook
SCRITTI PANDEMICI
Le mie scuse ad Aldo Nove
Ho qualche attenuante ma nessuna esimente. Quando – molti anni fa – una giornalista paragonò il mio romanzo Confessioni di un pazzo di raro talento a La vita oscena di Aldo Nove, andai su tutte le furie: “Io non mi sono ispirato a nessuno, meno che mai ad Aldo Nove”.
Poi ci fu un fugace incontro, alla Milanesiana, io uno sconosciuto in prima fila grazie a Silvio Raffo, lui uno dei poeti sul palco.
Oggi, otto anni più tardi, leggo Aldo Nove e dal profondo del mio cuore sento la necessità di porgergli le mie scuse.
Leggo uno dei suoi tanti post sul canale Telegram di Giorgio Bianchi: «Ascolto Giorgio Bianchi, da anni nel Donbass, probabilmente il massimo esperto italiano di quanto avviene ed è avvenuto là, mentre racconta le sue allucinanti esperienze mediatiche in Italia da alcune settimane e mi viene in mente chi mi ha scritto, in privato, che ha letto, ultimamente, "un po' di sconforto nelle mie parole". Non si tratta ormai (lo fu) di sconforto. Si tratta di quanto disse Pier Paolo Pasolini nella sua ultima intervista: "La parola "speranza" è completamente cancellata dal mio vocabolario".
Avere ormai incorporato oltre due anni di follia totale, di sovversione di ogni valore, di abbandono di qualsivoglia senso, di ogni prospettiva ragionevole di futuro non genera "sconforto".
Genera disperazione.
Non spero più in nulla.
Abbiamo superato il limite oltre ogni immaginazione e per questo ci resta il magazzino caotico di un immaginario funesto, devastato, neanche più apocalittico.
Il dramma è la quotidianità.
Ogni minuto che scorre nell'irrealtà.
Ma ci insegnano che forse sei TU che sei depresso e Big Pharma è pronto a darti una mano.
O forse ci vuole un bravo mental coach, o reality coach o che cazzo. Resta il fatto che in questo film di serie Z non ci credo, non mi scandalizza più, certo non mi appassiona.
Sotto ogni aspetto».
Poche semplici parole con cui Aldo Nove si mette a nudo. Lui ha il coraggio di farlo. Due anni fa aveva scritto del suo tumore, con la stessa profondità minimalista, con lo stesso rispetto per il linguaggio: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Rispettare il linguaggio, evitare di scrivere ciò che non significa nulla, che è orpello, kitsch, è la prima dimostrazione che un artista dà al mondo di saper padroneggiare la propria arte».
Aldo Nove è un artista. Qualche scrittore (in verità ben pochi), lo è.
La sofferenza, la malattia, gli hanno conferito una profondità metafisica. Come ha scritto Charles Bukowski: «Per essere un grande scrittore… un prematuro assaggio di morte non è necessariamente una brutta cosa».
Lui, come ho cercato di fare anch’io, ha fatto suo il sogno di Henry Miller: «Un giorno scriverò un libro su di me, sui miei pensieri… Voglio dire che mi stenderò sul tavolo operatorio, e metterò in mostra le budella… ogni cosa, accidenti». Più di ogni cosa odio la leziosità, il manierismo, l’ipocrisia e in Aldo Nove non ve ne è traccia.
C’è stato un tempo in cui un Alfredo Tocchi presuntuoso si offendeva se una giornalista lo paragonava ad Aldo Nove. Naturalmente Aldo Nove non ne ha mai saputo nulla. Oggi un Alfredo Tocchi più maturo domanda scusa. Ma questo non è ancora sufficiente, Alfredo Tocchi si augura che – almeno di Aldo Nove – rimanga il nome nella storia della letteratura italiana.
«Vai alla deriva per anni e anni, finché ti trovi al centro morto, e lì lentamente marcisci, lentamente vai a pezzi, ti disperdi di nuovo. Resta soltanto il nome» (Henry Miller, Tropico del Cancro).
Chi ha scritto una poesia come questa, merita che il suo nome venga ricordato:
Guarda, madre
Guarda, madre, sono arrivato
all’alba in cui la tua saliva,
ogni tuo umore,
raccogliendosi in globi azzurri,
formano i miei occhi
e nulla che in te non sia
futuro
io respiro, forte, fluttuando
con la consapevolezza
animale
che trattiene
e libera ogni segreto:
nelle tue vene
ancora tu sei
me. E tu lo sai, e
mi fai, e mi aspetti
nella fiducia universale
del tuo respiro mi fai!
Come ogni madre che fa un figlio.
Guarda, madre, quel luogo.
Quel luogo lontano. Lo vedi?
Prima che tu nascessi lo abitavamo.
Non io.
Non tu.
Allora non c’era separazione
e per una svolta del respiro,
del tuo respiro
adesso assieme
assieme
non mai separati
ci torniamo.
Ascolta, madre, le onde senza fine da cui proveniamo,
verso cui tu mi spingi al ritorno.
Io ti prendo con me. Le mie deboli mani,
il tuo debole corpo
sono ora la più grande forza del mondo,
sono il mondo che racconta a sé stesso
lo sforzo, lo sfarzo
del ciclamino, del quarzo,
della costellazione.
Madre che sei la mia vita
e la nostra ragione
reclamata dal tempo
che passa e ara
i volti
e le sere,
madre non vedi
come tutto è
miracolo?
[…]
Aldo Nove, Poemetti della sera (Einaudi, 2020)
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