12 Aprile 2021
Poesia (Pixabay)
Non inizierò col filosofare sul titolo della recente raccolta di Cavicchia, Il guscio delle cose – pubblicata per i tipi di Passigli lo scorso gennaio 2019 –, la cui semplicità, affatto evidente, è invero solo apparente, come apparente è la semplicità dello scritto, del descritto, dell’intero narrato poetico.
Cavicchia racconta al lettore una storia, la sua, spersonalizzandosi e re-identificandosi in ‘un’ uomo, un lui universalmente valido che vive l’universale esperienza della perdita e della separazione, del dolore e della sua elaborazione, della ricerca (e percezione) del sé in un altrove che in fondo è il ‘qui’. Eppure, l’‘io’ poetico compare di tanto in tanto a rivendicare un personale coinvolgimento, a svelare la sua vera identità.
L’intero discorso poetico – articolato in tre parti, Il guscio delle cose (9-32), L’appena nata (33-42), Così sia (43-50), a cui va aggiunto l’Epilogo (in forma di congedo) (51-55) – diviene poemetto, «si snoda in sequenze che si intrecciano le une alle altre in vertiginose ascese e discese tematiche ma nel solco di una mirabile unità espressiva e narrativa che dà anima a una lettura febbrile e ininterrotta» (Cavicchia 2019: 6).
La doppia voce di lui e di lei, marito e moglie, padre e madre di un figlio, dà vita a un contrappunto che intona due distinte percezioni dell’universo, della vita e della morte, del fisico e del metafisico che si cercano e si promettono un incontro che – ora – non avverrà salvo che nei ricordi, quegli stessi ricordi che subissano il presente e opacizzano il futuro, appiattendosi nell’attesa mentre il tempo scorre incurante e senza pause.
Da una parte c’è lei che va verso «un altrove dove i segreti attendono disponibili», dove sia possibile disvelare la menzogna della superficie per penetrare «nel silenzio delle cose», perfino «passare attraverso le cose/per scoprirne il segreto e fingere/di essere un segreto racchiuso in quelle». Il treno con cui parte diviene metafora del viaggio e del trapasso, dell’ingresso in una nuova vita in cui la verità – non prima svelata – è ora manifesta: se la menzogna e l’illusione coincidono con il visibile, c’è un mondo più autentico e più vero nell'invisibile, nel ‘trasparente’. Dall'altra parte c'è lui che non sente e non vede «oltre il confine stabilito», atterrito dal dolore («annaspo nell’immobilità del lago») e dal vuoto dell'assenza, ricerca parole consolatorie che non arriveranno, che forse non ascolterà o non saprà ascoltare, per ripiegare su sé stesso e sul proprio silenzio, consapevole che la verità, celata dalla ‘pura superficie’ delle cose, non può trovarsi altrove se non in sé: «si cerca sempre noi stessi/e noi siamo dove siamo e non altrove».
Lo spazio in cui lui e lei provano a incontrarsi è un limes extraurbano ma simbolico: il bosco, dove lei diviene albero e lui ramo («se potessi scegliere/vorrei diventare albero/e tu potresti passeggiando tra i boschi dire/ecco è lei/e io ecco è lui/ e saremo rami»), ma dove entrambi, pur mutati, falliscono nell’incontro.
Sembra che il poeta non parli che di morte, ma è di vita in realtà che parla. Come Montale in Piccolo Testamento afferma la vita attraverso la morte («ma una storia non dura che nella cenere/e persistenza è solo l'estinzione»), anche Cavicchia conferma la vita parlando di ciclicità e di continua rinascita: «siamo noi il tempo con i ricordi datati/e nell’ora della memoria in un bosco/che non è bosco/vedrai l’albero verde e poi secco/poi ancora vestito di foglie/e di nuovo spoglio». Ma è solo nella dimensione dell’aldilà, in quella di lei, che avviene questa reductio ad unum di tutti i paradossi: il finito si risolve nell’infinito, i numeri nel numero, le parole nel silenzio, l’imperfezione nella perfezione, il ‘qui e ora’ nel tempo eterno. In questo modo lo spazio e il tempo, tanto più i ricordi – atti a definire l’identità in cui ciascuno si riconosce – si riducono a ‘grado zero’ per annullarsi nell’infinito e nell'anonimato, «parleremo di ricordi» infatti «quando/i ricordi saranno altri/ e noi non più noi ma l’altro da noi disgiunto/liberato nel senza spazio».
Da qui il guscio delle cose – e torno al titolo –: ciò che resta è il guscio (anche in questo Cavicchia mi ricorda il Montale di Ossi di seppia, benché diversi), la superficie che cela il contenuto, che è pura luce e che risplende, che è silenzio trasparente. È l’eterno di una vita, quella di lei, vissuta nell’altrove: «cosa dire di un viaggio non concluso/di quel guscio che l’aveva protetta e nascosta/all’apparenza luminoso eppure geloso/della propria luce che non tratteneva/e per questo stabiliva le distanze». Il poeta resta dall’altra parte, tra i vivi, corporeo, da solo con le parole; vede il guscio, la sua immagine, e ne conserva un segno sulla e nella pelle: «battimi la schiena/e non salvarmi/condannami a te», scrive Cavicchia, esasperando di volta in volta l’immagine mediante l’uso della climax: «frusta la mia schiena», «segnami la schiena» con la catena, «ferisci la mia schiena».
La bellezza di Cavicchia sta nella semplicità, ma soprattutto nella contestuale e potente drammaticità non esasperata né patetica o banale, eppure eppure – che il poeta ripete spesso, come a dire che malgrado tutto, malgrado le domande e le mancate risposte, le cose non cambieranno – è densa e simbolica, di un simbolismo metafisico.
La poesia sembra nascere dalla penna di Cavicchia come racconto, venendo alla luce naturalmente e coerentemente senza involuzioni o artifici retorici che distraggano dai contenuti. Lo stile lineare e colloquiale dà piuttosto alla materia del distacco un tono di confessione e di autoconfessione, a tratti consolatorio e a tratti arrendevole, ma sempre profondo. E, a lettura conclusa, la poesia stessa sembra essere il luminescente che si disvela dal e al poeta, mostrando tutta la sua verità, la sua trasparenza, manifestandosi cioè essa stessa come luce contenuta nel (suo) guscio.
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