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"Il significato del mio amarti", una riflessione sul dono in forma di lettera: donare non significa molto possedere ma molto essere

Io ti ho amato senza niente sapere dell’amore ma molto appartenendoti, esattamente come la rosa non sa di essere rosa ma manifesta il suo fasto nell’appartenenza al mondo che abita

05 Novembre 2025

Amore

Amore (fonte Pixabay)

In questo tempo spesso indifferente, trovo ancora isole di gaiezza, piccoli incisi nel periodare cinerino del tempo – e li trovo nell’appartenerti, mia Maresa.

Ho letto e riletto le tue ferventi lettere e là dove l’amore si fa significato e verità, là v’è qualcosa di salvo dall’oblio. Perché, vedi, viviamo per consegnarci agli altri e alla vita stessa, e spesso, ciò che ci concediamo, è una concessione che si fa al mondo più che a noi stessi.

Sono dell’idea che perseguire la verità sia non solo un esercizio intellettuale ma uno sforzo calato nell’agire. E che ogni scelta, per quanto sembri risibile, abbia un suo enorme peso specifico. Si pensa spesso, all’esercizio intellettuale, o come a uno ieratico ritiro nelle pieghe della mente, o come, per una visione estetizzante e erronea, a una dimensione disarticolata dalla vita fattuale. Per mio conto raccolgo l’insegnamento di Montaigne e credo che il pensiero non sia disgiunto dalla vita pratica e ne sia, anzi, vivificato. Naturalmente vale anche il contrario. Quante cose nella vita passano senza lasciare un segno e quanti segni se ne vengono come se inferti da una mano infelice. Dare un senso, uno proprio (ne esiste un altro?) alla vita, può essere un duro cimento, ma ciò che ne consegue è piuttosto, nel migliore dei casi, una direzione. Pensare e agire senza direzione è un contesto babelico e informe; ma anche dare una direzione può portare a un certo smarrimento e a un certo caos. Tanto per cominciare, ogni scelta è tale da defalcarne altre dal quadro di una vita, e se è vero che scegliere è un fatto vitale è anche vero che ha molto a che vedere con la soppressione e la morte. Bisognerebbe riguadagnare un agire non meramente opzionale, un sano inebriarsi nel dare vita e forma al pensiero e all’azione, a farne un’aurora pura e fresca consegnando all’inedito il bacino di un volere creante. Un pensiero risentito e tale da negare, che assume anzi la negazione come elemento necessario alla propria genesi e attuazione, è un pensiero intossicato. Creare è un gesto che sospende il tempo, annienta il passato e trafigge il futuro. Non per un verso dialettico, ma epifanico e messianico, se possibile, e tale da osteggiare un tempo meramente lineare precipitandolo nella profondità. Ciò che nella vita si rivela strappa sempre il velo della consuetudine. E se mille e mille gesti e pensieri scorrono come un flusso inavvertito dalla vita stessa, come qualcosa che non emerge da un fondale indistinto, è anche vero che ciò che rompe il consuetudinario è la sola cosa che segna uno scarto sensibile nel discernimento.

Non sarò mai genericamente contro qualcosa o qualcuno, in primo luogo perché darei importanza e peso a qualcosa che a mio modo d’intendere non è degno e, anzi, come detto, ne farei il presupposto necessario a una scelta meramente optante (quella espressa da un contrario); potrò altresì ricondurre chi sostiene una tesi o un pensiero, alle conseguenze pratiche e specifiche che essi comportano. E di qui sospenderei il giudizio, non negherei alcunché, affermerei piuttosto qualcosa di inedito e abissale, tale da creare una frattura e, arrivo a dire, del disagio: il disagio di dover ricominciare, facendo i conti con l’inespresso, con gli interstizi nascosti nell’ottusa costruzione dei giorni, dei fatti, delle opinioni. Ribadisco con forza che l’atto più rivoluzionario di una vita è dare vita. E tu, in quanto donna, conosci bene questa verità e ne sei depositaria eccellente. Mentre oggi si assiste a una tetra parata di ragioni e vincoli mortiferi. Dare vita significa confrontarsi con l’inizio, con una fase aurorale, atavicamente lontana dal compromesso. Un pensiero o un fatto devono avvenire ancora prima che succedere, devono essere fatti per essere raccolti, testimoniati, sostenuti – e sostenere la vita è oggi atto rivoluzionario. A mio modo, vedo l’ordito del mio agito come una rete troppo smagliata, come un costrutto difettante, soprattutto cieco, perlopiù, a ciò che può dirsi nudo evento. Tutto sembra fluire come se preordinato e tale da non rompere una grigiastra consuetudine: come un dispositivo che agisce secondo rapporti di causa ed effetto, in modo meccanicistico, tale da essere spogliato di senso proprio quando acquisito come fatto allo stato bruto. Ma ho imparato che infrangere le consuetudini, può condurre a prospettive nuove. E in questo iscrivo anche l’amore. Il mio amore per te è qualcosa che non scende a compromessi ed è, come scriveva Hikmet, il “non ripetersi del ripetersi”. Quante sonnolente abitudini si coltivano in una vita, senza essere minimamente sensibili al linguaggio nascosto di essa, ai mille e mille segni che dissemina e potrebbero essere incunaboli di nascita o rinascita! Essere in rapporto dialogico, ermeneutico, con la vita dischiude mondi. Se ho fatto riferimento al nostro amore è perché non è mai stato la consuetudine di sé stesso, non ha mai sonnecchiato, non ha mai stagnato. Essere in dialogo con te significava e significa tornare a stupirsi, aprire gli occhi non su ciò che era dato come un “compitino” ben scritto, ma su eventi, appunto, e nascite. Quando la vita nasce, del resto, è nuda e incontaminata, innocente e al cospetto di un ordine disordinato, di un paesaggio dell’indiscernibile, e del vivore che hanno tutte le cose e i dettagli quando aurorali. È mio giudizio che la vita porti progressivamente a un ottundimento, alla maniera in cui mani callose divengono insensibili al tatto, la vita diviene insensibile a sé. Regole, vincoli morali, istruzione, religione, famiglia, tutto ciò che è istituzionale porta il peso di una greve forma di abitudine che allontana in modo indefesso, dal ricevere e dal restituire, da una percezione febbrilmente viva e attenta, acuta. Anche sentire può sembrare un peso, e nel nostro amore io ho sentito il peso della responsabilità, che non è solo un rispondere “di” qualcosa ma precipuamente un rispondere “a” qualcosa. Quante volte ho pensato che un’anima piena e grata all’amore, fosse un anima in ascolto! L’anima di chi è attento ad avvertire, a percepire, interrogando sé e la realtà di un amore dialogante. Non so come altro spiegarti questi miei pensieri se non attraverso il paradigma del dono, della profferta, che così tanto si allontanano, nella mia sensibilità, dal concetto di sacrificio. Esattamente come rigoglio e abbondanza sono lungi dalla privazione e dalla mancanza. Proprio perché v’è sempre qualcosa di  malaticcio e mortuale nel sacrificio, qualcosa che si allontana dal celebrare pienamente la vita, dall’assaporarla (e mi viene in mente che il verbo “sapio” rimanda in origine a un rapporto orale col sapere). Bisognerebbe, invece, in amore promanare se stessi perché traboccanti d’essere.

Ti ho amata e ti amo come si ama qualcosa di auratico e miracoloso, con il gesto di celebrare flussi di nascite e rinascite, come al cospetto di un avvento sacro, una messa in atto dell’inesprimibile, un  originario senso di nudità e esposizione nuda alla vita. Semmai parola potrà rendere il significato del mio amarti quella sarà “stupore”. È un sentimento quasi bambino in cui tutto è nuovo, tutto è fresco come un liliale bucato mattutino e in cui capisci che amare è una forma di agguato, esattamente come il poetare e il sentire fortemente.

Non potevo, da principio, capire cosa significasse vivere con accanto una creatura venerata, perché presupponeva di abbandonarmi, di perdermi per ritrovarmi in essa. Ed è proprio questa la chiave di volta dell’amore, essere presenti ai mille appelli di una vita, prodighi di sé, dativi e erranti proprio nel gesto di compiere un arrivo che non rimane isolato, ma è un macramè di arrivi.

V’è qualcosa di attento e colmo di laboriosa perizia nel ragno che tesse la tela: essa diviene il diapason del suo sentire, esattamente come se non solo ne facesse parte, come se essa non fosse solo una protesi del suo percepire, come fosse il ragno stesso tela. E abitandola come potrebbe essere diversamente? In definitiva, il ragno crea il proprio sentire, esattamente come è chiamato a fare chiunque ami. Amare è un atto di cura e appartenenza e un territorio del sentire.

A mio modo, anche io, cerco di allargare il mio sentire, di essere vigile, di essere alla scoperta… E quel lontano giorno di aprile, se non mi fossi disposto alla percezione esasperata e all’ascolto più teso, non avrei capito nulla del nostro incontro. Tu eri già allora nell’aura diafana del sognare, nel suono di tutte le cose create, nel fasto dei colori, nel profumo ubriacante di fiori schiusi a un sole non più larvale ma manifesto in tutta la profondità dell’essente. Raccogliere il tuo sembiante e le tue parole significava associare la fedeltà al vero, e negare la morte negando l’oblio.

Ho imparato perfino ad assecondare alcuni tuoi piccoli vezzi, col tempo, ad aderire come una benda bagnata alla fisionomia del tuo desiderio e a porlo in alto sul picco del mio desiderare stesso.

Quante baruffe, dispetti e litigi, si sono susseguiti dacché siamo in connubio! Eppure mai, dico mai, essi furono l’immagine dell’insignificanza e della mediocrità. Furono sempre occasione di conoscenza nel significato più alto, furono sempre un getto di fonte e un’inclinazione verso il talento del vivere, verso il genio della scoperta e, assieme, la caduta di una spessa coltre di falsità.

In qualche modo comunicare con te significava dialogare col meglio di me stesso, e quando lo facevo con gesto felice, era per me una gioia appagata. Di tutti gli idiomi con cui ci siamo comunicati l’uno all’altra, non ve n’era uno che non fosse sensibile, anche quando consegnato al pensiero più puro e astratto. È così che ci siamo allontanati solo per avvicinarci, ci siamo distinti solo per meglio fonderci, ci siamo avuti solo per meglio donarci.

Ora che anni sono passati, riconosco che molto di ciò che era febbrilmente vitale e consegnato al vivore e al rigoglio, può sembrare ora un corso consolidato e scevro di altra sorpresa, ma non è così: in ogni tuo gesto io raccolgo una testimonianza, in ogni tua espressione un sintomo del divino, e in tutto ciò di cui difetti l’occasione inestinta dell’accogliere e dello scoprire.

Vorrei ora lasciarti con una riflessione che riprende le mosse dal principio di questa lettera: parlavo del dono di sé… E aggiungo che donare non significa molto possedere ma molto essere: così capita che pienamente vivendo si comprenda che l’amore non lo si possiede alla stregua di un oggetto, ma lo si abita alla stregua di un sacro delubro. Un tempio in cui la luce è mosaico di colori, e i colori sono note dell’universo, e sentire è testimoniare della vita anche quando essa sembra nascondersi nel mistero. Alla stessa maniera l’amore per te è stata la mia occasione per celebrare una nascita, una venuta al mondo di qualcosa che non era una mappa o una prospettiva, ma la sola prospettiva possibile di ogni profondità di sguardo, pensiero e sentire.

Qualora una mappa fosse perfetta verrebbe a coincidere con il posto fisico che vuole rappresentare, ma finirebbe di essere mappa e orientare: in essa ci smarriremmo come nel luogo di origine.

È per questo che tengo in gran conto i processi astrattivi e affermo che hanno qualcosa di divino, ma tengo anche ben presente che amarti è essere nelle cose, fare di ogni cielo carne e della carne dell’amore diffuso cielo.

Principiavo la lettera dicendo che siamo, in fondo, ciò che facciamo al mondo e che non esiste pensiero che non porti traccia di qualcosa di empirico, eccettuati forse i postulati che ho tanto in odio, ma arriverei a dire che amare è il plesso sacro di pensare e fare nel medesimo gesto che tanto ha a che spartire con la creazione. E se fuggevole è la vita, si sperimenta qualcosa che sa di eterno solo quando si è compreso che abbandonarsi è trovarsi, che donare è donarsi qualcosa, che essere a sé non è altro che porre in armonia e risonanza le proprie ragioni, con quelle di coloro con cui spartiamo una vita. Il dono più grande è nella prossimità, così come lo scavo più grande è carezzare la superficie delle cose.

Io ti ho amato senza niente sapere dell’amore ma molto appartenendoti, esattamente come la rosa non sa di essere rosa ma manifesta il suo fasto nell’appartenenza al mondo che abita.

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