05 Novembre 2025
Vincent van Gogh, uno dei più celebri pittori post-impressionisti, è stato sempre associato a una sofferenza psicologica profonda e inestinguibile, che si compenetra inestricabilmente con la sua arte. La sua tragedia esistenziale, fatta di isolamento, incomprensione e affezioni mentali, è riuscita a plasmare opere artistiche straordinarie che non cessano di parlare all’animo e all’immaginazione di chi le osserva. Le sue difficoltà emotive e psichiche, ampiamente documentate nelle sue lettere e nel racconto della sua vita, sono spesso state interpretate come il riflesso di un disturbo bipolare: condizione che alterna fasi maniacali a fasi depressive. A più di un secolo dalla sua morte, la canzone Vincent di Don McLean (1971) è riuscita a carpire l’essenza del tormento di Van Gogh, facendo riferimento alle sue emozioni più ime e alla potente bellezza della sua arte. La canzone, pur essendo un tributo poetico, si inserisce perfettamente nel contesto della sua affezione bipolare, esplorando la dualità luce/oscurità che innervava la sua vita e il suo lavoro. Cerca di penetrare nel suo cuore e nella sua anima tormentata, improntando immagini e contenuti quasi a una carezza lene che lambisce la sua sofferenza con empatia e delicatezza. Scritta nel 1971, Vincent è, sì, omaggio alla sua grandezza, ma anche alla sua solitudine e al suo certame interiore. La canzone si concentra su due aspetti principali della vita di Van Gogh: il contrasto tra la bellezza della sua arte e il tormento emotivo che l'accompagnava, e l’incomprensione che ha dovuto affrontare nel corso della sua vita. Diceva McLean nelle sue interviste: “Ho scritto la canzone dopo aver letto un libro su [Vincent van Gogh] … e ho avuto la rivelazione che il dipinto Notte stellata era, in realtà, lui! Così, tutto ciò che dovevo fare era infondere la sua presenza dentro il quadro e scrivere ciò che vedevo… Ero seduto su una veranda una mattina, stavo leggendo… all’improvviso capii che dovevo scrivere una canzone per difenderlo: non era pazzo, era malato. E anche suo fratello Theo aveva dei problemi di salute. Così presi una riproduzione di Notte stellata, la posai accanto a me e scrissi le parole su un sacchetto di carta. Ho trasformato lui nel dipinto — nei vortici, nei colori … e poi la melodia è arrivata, quasi come un’emozione che si esprimeva da sola.”
E viene fatto di chiedersi se a parlare nel testo, per mezzo della voce artistica di McLean, non sia proprio l’amico “speciale” Gauguin. Nel 1888, infatti, Vincent van Gogh si trovava ad Arles (lontano dal caos di Parigi, sognava di creare una “comunità di artisti del Sud”) e suo fratello Theo, mercante d’arte, lo mise in contatto con Paul Gauguin, artista già affermato e teorico di una pittura più simbolica e mentale. Gauguin, in difficoltà economiche, accettò l’invito e raggiunse Van Gogh ad Arles nell’ottobre del 1888. È celebre l’episodio in cui Van Gogh, accogliendo l’amico con entusiasmo, decorò per settimane la Casa Gialla con i celebri Girasoli, che dovevano rendere l’ambiente luminoso e accogliente. Per lui, Gauguin rappresentava non solo un collega, ma quasi un un compagno (omosessuale?) di viaggio nel cammino verso un’arte pura e libera. La loro convivenza che iniziò sotto il segno dell’energia e del confronto creativo (uscivano insieme a dipingere, discutevano di tecnica e di colore, e si stimolavano a vicenda) fu segnata però da profonde differenze: Van Gogh dipingeva dal vero, con un’urgenza emotiva e spirituale: il suo modo di lavorare era rapido, istintivo, pieno di passione. Cercava nella natura una verità morale e umana, non solo estetica; Gauguin, al contrario, era più riflessivo e simbolista. Per lui, l’arte doveva nascere dalla mente, non dall’osservazione diretta. Preferiva la costruzione dell’immagine alla spontaneità del gesto pittorico. Queste due visioni opposte riflettevano anche due caratteri diversi: Van Gogh era sensibile, empatico, bisognoso di dialogo; Gauguin, più introverso e orgoglioso, amava l’autonomia e il controllo.
Nonostante le differenze, entrambi riconoscevano nel compagno un artista autentico, anche se faticavano a convivere quotidianamente. Come scrisse Van Gogh a Theo: “Io sento in Gauguin un amico, ma è un amico di tempesta.” Un altro episodio celeberrimo ma assai drammatico, sanguigno e di insanabile rottura, avvenne la sera del 23 dicembre 1888: dopo un violento litigio (le cause precise restano incerte), Gauguin uscì dalla casa per calmarsi e Van Gogh, sconvolto e in preda a un forte turbamento mentale, rientrò poco dopo nella sua stanza e, in uno stato di confusione, si ferì l’orecchio sinistro con un rasoio. Non si trattò, secondo gli studiosi, di un atto premeditato, ma di un gesto compiuto durante un episodio psicotico dovuto al suo disturbo psichico — che oggi viene interpretato come una forma di disturbo bipolare, come detto, con episodi psicotici. Subito dopo, Vincent avvolse la parte recisa in un panno e la portò a una giovane donna di nome Rachel, che lavorava in una casa di piacere ad Arles, chiedendole — secondo alcune testimonianze — di “conservarla con cura”. Poi tornò a casa e svenne. La mattina successiva, un agente di polizia trovò Van Gogh privo di sensi e coperto di sangue nella Casa Gialla.
Fu immediatamente portato all’ospedale di Arles, dove venne curato dal dottor Félix Rey.
Gauguin, profondamente scosso, lasciò Arles per Parigi e non tornò più a vederlo. Durante il ricovero, Van Gogh mostrò grande lucidità in alcuni momenti e confusione in altri. Scrisse lettere al fratello Theo, che lo raggiunse subito, mostrandosi preoccupato ma pieno di affetto. In una di queste lettere, Vincent riconobbe di aver attraversato “una grande crisi”, ma espresse anche il desiderio di riprendere a lavorare, convinto che la pittura potesse aiutarlo a ritrovare equilibrio.
Nel periodo trascorso presso l’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence (1889-1890), invece, Van Gogh dipinse diverse opere ispirate al giardino dell’istituto e di cui una delle più significative è “Il giardino dell’ospedale di Saint-Paul”, nella quale inserisce con grande attenzione piante officinali e fiori che, secondo la medicina del tempo, avevano proprietà terapeutiche. In particolare, si possono riconoscere iris, digitali, oleandri e assenzio — vegetali che, più che decorativi, avevano per Van Gogh un valore simbolico legato alla guarigione e alla fragilità della vita. Tra questi, la digitale purpurea (Digitalis purpurea) merita un’attenzione speciale. Questa pianta era largamente usata in medicina nel XIX secolo come cardiotonico e calmante, e spesso compariva nei trattamenti per i disturbi nervosi. Van Gogh la rappresenta anche nel celebre ritratto del dottor Paul-Ferdinand Gachet (1890), il medico che lo seguì nei suoi ultimi mesi a Auvers-sur-Oise. Nella tela, Gachet è raffigurato con una malinconica espressione, inclinato, assorto, appoggiato a un tavolo su cui campeggia, in un vaso, proprio un rametto di digitale: la cui presenza, assieme alla figura di questi, sembra creare un rapporto di empatia tra curante e paziente, tra due uomini che condividono la stessa malinconia. Lo sguardo di Gachet riflette, in qualche modo, quello di Van Gogh: entrambi consci della delicatezza della mente umana e del limite della medicina.
Il dottor Paul Gachet era medico omeopata e pittore dilettante, amico di molti artisti impressionisti e le sue annotazioni e lettere ci forniscono un ritratto prezioso della condizione di Van Gogh: egli descriveva l’artista come un uomo di estrema sensibilità, soggetto a “crisi mentali ricorrenti, con periodi di lucidità straordinaria”. In altre parole, ed è bene qui precisarlo, Gachet era convinto che il male di Van Gogh non fosse solo una malattia mentale in senso clinico, ma anche il risultato di una tensione creativa esasperata: un’anima troppo intensa per adattarsi alla vita quotidiana. Va aggiunto che già in precedenza, durante la sua permanenza a Saint-Rémy, i medici avevano annotato nei registri dell’ospedale i sintomi di crisi depressive alternate a fasi di iperattività creativa. Si parlava di “attacchi di epilessia” (termine usato allora per indicare vari disturbi neurologici e psichiatrici) e di “confusione mentale intermittente”. Van Gogh stesso, nelle lettere al fratello Theo, raccontava la sua condizione come una lotta contro “una malattia del cervello” che però non gli impediva di dipingere: anzi, spesso, la pittura diventava per lui una forma di terapia. Le note dei medici del pittore, da Saint-Rémy a Auvers, mostrano che, pur nella sofferenza, Van Gogh non perse mai la lucidità artistica e la capacità di osservare il mondo con intensità lancinante.
La vita di Van Gogh, del resto, è stata segnata da un alternarsi di periodi di intensa energia creativa e profondi crolli psicologici. Questi periodi non erano meri sbalzi di umore, ma veri e propri cicli emotivi che rispecchiavano le caratteristiche del disturbo bipolare. Questo disturbo, che oggi viene diagnosticato come una condizione psichiatrica caratterizzata da cicli di mania (o ipomania) e depressione, sembra essere stato una delle principali spinte propulsive al lavoro e alla vita di Van Gogh.
Durante le fasi maniacali, Van Gogh, infatti, sperimentava una sorta di "euforia creativa", caratterizzata da un'elevata produttività e intensa vitalità emotiva. In questi periodi, la sua mente sembrava liberata da inibizioni, e la sua pittura ne risentiva positivamente, diventando più audace e ricca di colori vibranti. Tuttavia, questi momenti di lucidità e di grande genio venivano spesso seguiti da crisi depressive devastanti, durante le quali l’artista si sentiva sopraffatto da un senso di solitudine e di alienazione, d’incomunicabilità e refrattarietà agli stimoli del mondo. Le sue lettere, in particolare quelle inviate al fratello Theo, raccontano di come Van Gogh riuscisse a vivere solo per mezzo dell’arte, ma di come, allo stesso tempo, fosse incapace di trovare un posto nel mondo che lo circondava. Le sue difficoltà psicologiche furono aggravate da un continuo senso di inadeguatezza e dal rifiuto sociale. L’artista si percepiva estraneo, incapace di integrarsi nella società e di ricevere il riconoscimento che meritava. In molti dei suoi autoritratti e nei dipinti di paesaggi, come Notte stellata (proprio quello che ha ispirato McLean), si riverbera questa condizione interiore, sospesa tra sé e un mondo esterno che appare sconosciuto e inquietante, indecifrabile e alieno ma che allo stesso tempo è attraversato dalla fulgida luce della creatività. Le crisi psichiche che lo affliggevano non erano solo il risultato di una mente instabile, quindi, ma anche di un rifiuto culturale che faceva sentire Van Gogh come un artista incomprensibile, se non addirittura pericoloso.
Per venire nuovamente alla canzone di cui ho curato la traduzione italiana, il verso che la apre, “Starry, starry night” (Notte stellata), è un riferimento diretto al celebre dipinto di Van Gogh, che rappresenta uno dei suoi capolavori assoluti. McLean, utilizzando questa immagine evocativa, invita a guardare il mondo attraverso gli occhi stessi dell’artista: un mondo che, sebbene visto come paesaggio sconvolto e tumultuoso, tormentato, è illuminato dalla bellezza della sua visione. La notte, che nella tradizione pittorica è spesso associata al mistero e alla solitudine, in Van Gogh diventa un luogo di luce vorticosa e avvolgente. La ripetizione di “starry” nel testo evoca l’idea di un mondo che si sta dissolvendo nell’oscurità, ma che è anche colmo di una sorta di luminescenza interiore, quella che Van Gogh riusciva a catturare nei suoi dipinti, nonostante la sua triste condizione psicologica.
Un altro verso significativo è “How you suffered for your sanity, how you tried to set them free” (Come hai sofferto per la tua sanità mentale, come hai cercato di liberarli). Qui, McLean allude alla lotta strenua di Van Gogh per mantenere la lucidità e la capacità di creare. Ma la sofferenza e il dissidio interiore che Van Gogh riversava nel mondo esattamente come nella propria visione allucinata di esso, non erano solo legati alla sua malattia, ma anche alla difficoltà di comunicare con gli altri. La sua arte, che avrebbe dovuto essere veicolo di liberazione e di espressione, è diventata, invece, il mezzo attraverso cui l’artista cercava di “liberarsi” dal caos mentale che lo devastava. In questo senso, la pittura di Van Gogh non è solo un atto creativo, ma anche un atto di sopravvivenza. Una delle caratteristiche nodali del disturbo bipolare è la ciclicità delle emozioni, che passa, come detto, dall’euforia alla depressione, e che appare calata nella tavolozza del pittore olandese. La sua arte, in effetti, è attraversata da un conflitto tra colori intensi e vibranti, tipici delle fasi maniacali, e tonalità più scure e cupe, che evocano i suoi periodi di disperazione. La canzone Vincent riesce a catturare questo contrasto, parlando di un mondo diviso tra la bellezza dell'arte e la sofferenza dell'individuo. Tra l’espressione travolgente dei propri colori interiori e la ferocia, viva e cupa al contempo, di una realtà che flagella l’anima e per cui il solo verso di interpretarla equivale a cambiarla e stravolgerla secondo una “riscrittura” pittorica che possiede dell’incredibile e il fasto del genio più prodigo.
Quando McLean canta: “this world was never meant for one as beautiful as you” (questo mondo non è mai stato pensato per uno come te), esprime una delle tragedie fondamentali della vita di Van Gogh: il suo talento straordinario e straripante, che mal si conciliava con la realtà che lo circondava. In questo modo, la canzone esplora non solo la condizione psicologica dell'artista, ma anche l'impossibilità di riconciliare il suo luogo interiore con quello esterno. L’immagine di Van Gogh come un “estraneo” nel mondo diventa, dunque, la metafora di un artista che, pur vivendo in un mondo irradiato di bellezza, non riesce a trovare pace dentro sé.
Attraverso le parole splendide di McLean, il pubblico percepisce la frattura tra l’intensità della vis creativa e il dolore che la accompagnava. La canzone, lene e poetica, si fa veicolo di una riflessione più profonda sul disturbo bipolare, che non solo atterrisce l’individuo, ma alimenta una forma di arte potente e incontaminata che suscita emozioni attraverso una trasfigurazione, inesausta e quasi ipnagogica, tale da rendere più vero della semplice simiglianza il vero stesso.
Van Gogh, pur soffrendo di una condizione drammatica pervasa di solitudine e che lo ha condotto a morte prematura per suicidio, ha saputo dare vita a opere che sono diventate simboli di bellezza fuori del tempo. La canzone di McLean riesce a restituirne una parte di bellezza e dolore tracimanti, facendo luce sul lato umano di un artista che ha vissuto nel tormento, ma che ha saputo immortalare l’anima del mondo attraverso la propria tavolozza “dissennata” e figlia di un estro visionario che aveva tradotto il circostante nell’idioma (pantaguernito di colori così vivi da transustanziare quelli reali nella carne e nella linfa di un’anima più viva nell’arte di quanto avesse potuto, forse, nella vita stessa) di tinte pastose e segni tali da imprimere un dinamismo sguincio e febbrile al vento come ai campi, alle stanze come alle strade, ai cieli e al mare, alla solitudine e all’abbandono, infine, cui sembra votata una bellezza dannata nel proprio esonero dal comunicarsi… Se non con una tavolozza che sembrava sfidare le sue leggi stesse, per sempre alienata e dentro le cose: per sempre… Quando il tratto che l’aveva spremuta nei colori fu così effemerico.
Traduzione personale della canzone “Vincent” di Don McLean
Notte, notte di stelle
Dipingi la tavolozza di grigio e blu
Ti affacci su di un giorno d’estate
Con occhi che sanno il buio nella mia anima
Ombre sulle colline
Accenni gli alberi e i narcisi
Carpisci la brezza e il gelo dell’inverno
con colori sulla terra di lino nevoso
Adesso comprendo
Ciò che provasti a dirmi
Quanto hai sofferto la tua malattia
Quanto hai cercato di renderli liberi
Loro non ti avrebbero mai ascoltato, non sapevano come
Forse ti ascolteranno ora
Notte, notte di stelle
Fiori fiammeggianti che balenano
Nuvole vorticose in una bruma viola
Si riflettono negli occhi di Vincent di porcellana blu
Colori che cambiano tono
Campi mattutini in grano ambrato
Volti segnati dalle intemperie e graffiati dal dolore
Sono leniti dall’amorevole mano del pittore
Adesso comprendo
Ciò che provasti a dirmi
Quanto hai sofferto la tua malattia
Quanto hai cercato di renderli liberi
Loro non ti avrebbero ascoltato, non sapevano come
Forse ti ascolteranno ora
Perché mai avrebbero potuto amarti
Sebbene il tuo amore fosse sincero
E quando non rimase traccia di speranza
In quella notte così stellata
Ti sei tolto la vita proprio come gli amanti spesso fanno
Ma avrei potuto dirti, Vincent,
Questo mondo non era concepito
Per uno bello come te
Notte, notte di stelle
Ritratti appesi in spazi vuoti
Volti senza cornice su muri privi di un nome
Con occhi che guardano il mondo e non possono scordare
Come gli sconosciuti in cui ti sei imbattuto
Uomini consumati in abiti consumati
La spina d’argento e la rosa che sanguina
Giacciono schiacciati e a pezzi sulla neve vergine
Adesso comprendo
Ciò che provasti a dirmi
Quanto hai sofferto la tua malattia
Quanto hai cercato di renderli liberi
Loro non ti avrebbero mai ascoltato, non sapevano come
Forse ti ascolteranno ora
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