08 Gennaio 2023
fonte: imagoeconomica.it
Il Teatro alla Scala ha messo in scena, durante il periodo natalizio, una delle migliori rappresentazioni di balletto degli ultimi decenni: lo Schiaccianoci di Ciaikowskj. Ottima scenografia, splendida orchestrazione, superbì ballerini, coro eccellente, un vero masterpiece, direbbero gli anglosassoni che, dopo la pandemia, hanno consacrato il nostro Teatro, come leader e culla della musica classica mondiale, sulle prestigiose pagine del New York Times. Onore a Milano! La città di Stendhal, di Manzoni, di Verdi, di Toscanini, di Pavese, di Montale, di Montini, di Montanelli, di Giulio Natta e perché no, ancora fra tanti, di Giorgio Gaber.
Uscendo dal teatro, ho sentito il forte stridio emesso da un apparecchio, a tutto volume, in mano ad un ragazzo, cui ho chiesto di che cosa si trattasse. Lui, in tono quasi mistico, mi ha risposto pronto: “E’ il grande Luca Ebbasta”.
Dopo aver orecchiato alcune di quelle note ed alcune di quelle parolacce, sono passato oltre e mi sono fatto la solita domanda banale: se questa è la richiesta artistica dei giovani, che riempie interi stadi, chi è fuori dalla norma? Io o loro? Tutto ciò risponde effettivamente ad una nuova interpretazione della musica, o risponde soltanto alla realtà di una società decadente? La risposta ad un tema così vasto, ha riempito già e ne riempirà ancora, migliaia di pagine redatte da scrittori, filosofi, sociologi, dividendo i cosiddetti progressisti, dai cosiddetti conservatori, i cosiddetti innovatori, dai cosiddetti oscurantisti ed i modernisti, dai tradizionalisti.
E’ comunque certo che la forza, l’emozione, la complessità e l’originalità compositiva di Ciaikowskj, è impossibile paradossalmente ritrovarla in Sfera Ebbasta. Non è sufficiente dire che sono due generi diversi. Sono due mondi diversi e penso sia ragionevole ammettere quale dei due sia il migliore.
Queste scontate considerazioni, mi hanno portato alla memoria Joseph Ratzinger, il Papa appena scomparso, tacciato erroneamente di essere un conservatore.
Lui era semplicemente un idealista, che credeva nell’uomo, certamente in nome di Gesù, come essere spirituale, come portatore di valori non negoziabili e della speranza insita in chi crede. La sua dichiarata, non ambigua, contrapposizione tra idealismo e relativismo, consacrata ufficialmente nel suo famoso discorso a Ratisbona, non rappresentava certamente l’antitesi tra vecchio e nuovo, ma tra fiducia e acquiescenza, tra fede nel futuro e remissività nell’esistente.
Ha lanciato in cielo una fiamma, non a caso dalla sua terra di origine, quale riferimento universale, che attraversa mondi e popolazioni.
Questa fiamma poteva essere rilanciata dal nuovo Papa, durante la pandemia, per rendere la Chiesa di Roma quel forte ed insostituibile riferimento centrale ed universale, cui tutti anelavano, soprattutto in quei momenti. Quel silenzio culturale, prima che religioso, ha rappresentato un grande vuoto ed una grande occasione persa, per la Chiesa e per il mondo. Anche per questo probabilmente, il cordoglio corale, espresso alla sua morte, a distanza di tanti anni dalla sua uscita di scena, è stato tanto grande e tanto imprevisto.
Parafrasando il geniale pensatore Voltaire, possiamo forse interpretare così, quella esortazione di Benedetto XVI: “Ho deciso di avere un ideale, perché da’ pace al mio spirito.”
Di Pierfranco Faletti
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