20 Aprile 2025
La "veduta" è un genere pittorico consolidato, che ha vissuto i suoi momenti migliori tra la fine del Seicento e tutto l’Ottocento, almeno sino all’affermazione definitiva della fotografia, che sembra aver sostituito la pittura in questo "servizio" alla visione del mondo. Di più, a sentir parlare di "veduta", sia gli addetti ai lavori che gli spettatori meno smaliziati, di solito pensano alla visione di un paesaggio naturale, agreste o marino, perché la veduta di una città anticamente si confondeva con la "mappa" della città – le incisioni dei secoli passati ne sono la prova: la veduta, spesso a volo d’uccello, serviva a identificare le dimensioni della città, insieme alla collocazione dei suoi punti di riferimento precipui, come una chiesa, una cupola, una torre, un campanile…, mentre oggi quasi tutto è demandato a qualcosa di più veloce, di più dinamico, di più affine al "tempo vissuto dalla città e nella città", qual è la fotografia. Se la veduta naturale "funziona" per stagioni, la veduta urbana funziona per attimi: lo scattare del verde al semaforo ne cambia radicalmente direzioni e percezioni. E anche se la fotografia più intelligente ha provato a mostrare una città "immobile" priva di movimento, fissata in una sua strana sospensione metafisica – come accade ad esempio nelle foto di Eugène Atget, o di Gabriele Basilico, o di Thomas Struth– si tratta pur sempre di un'eccezione che alimenta l'altro tipo di percezione (altrimenti non ne sarebbe sortito alcun effetto straniante).
Alessandro Russo, invece, "dipinge" vedute di città, che si trasformano anche in vedute di porti, e che vengono da precedenti "paesaggi industriali". Qualcuno potrebbe dire che "si ostina" a dipingere paesaggi cittadini, come poteva accadere a Giuseppe De Nittis, a Gustave Caillebotte, a Giovanni Boldini o anche alla Scuola di Posillipo e, a ben vedere, questa sotterranea vena d'ironia sul presunto passatismo di questa pratica, si potrebbe eludere semplicemente con un "…e perché no?", visto che tutto può funzionare, una volta che si è visto che l'avanguardia è finita, inglobata in un grandioso melting pot, tanto vasto da non poter essere definito altro che pop. Dopo tutto, ogni artista che non abbia come soggetto la pura analisi del linguaggio o l’introspezione psicanalitica di sé, ha come soggetto principale un proprio orizzonte quotidiano, che sempre più si identifica con un paesaggio urbano. Semmai, sono i differenti gradi di scala con cui lo si guarda, a fare la prima differenza: tra un tostapane in primo piano e la vista a perdita d’occhio sulle decine di migliaia di case che costituiscono una metropoli c’è una massa quasi infinita di potenziali "messe a fuoco" su cui un artista si può concentrare.
La seconda considerazione, infinitamente più importante, non dipende il "cosa" si guarda, ma il "come". A questo proposito, Russo dipinge in maniera assolutamente tradizionale, come tradizionale è divenuta ora quella pittura che nel tardo XIX secolo era assolutamente innovativa: non a caso le citazioni di Caillebotte o di Boldini poco sopra aiutano a identificare il taglio e l'inquadratura che l'artista cerca nelle sue vedute, e non è un caso che in queste ultime righe molti termini tecnici e frasi idiomatiche vengano dalla tecnica fotografica. Vedutisti impressionisti e postimpressionisti non disdegnavano infatti di utilizzare inquadrature parzialmente anomale, sdoganate per così dire dall’obbiettivo fotografico che consentiva distorsionigrandangolari allora inusitate (sebbene non assenti nella pratica vedutistica degli incisori del XVII e XVIII secolo, Piranesi in primis), ma ciò che allora era rivoluzionario, perché obbligava l’occhio e la mente a una visione diversa della realtà, ora diventa una sorta di "citazione" che va a depositarsi su quelle tele e su quei supporti ( la carta, soprattutto, e qualche volta la lamiera d’acciaio semispecchiante, che fa lampeggiare quelle lucentezze che un tempo si trovavano nella pittura su rame). Così, un "paesaggio urbano", nella scala che Russo ha scelto, e che è quella di un moderato grandangolo – o, se volete, dell'obbiettivo del vostro smartphone – porta con sé tutte le vedute urbane dipinte sinora, e si confronta con esse, quasi sempre con un'umiltà pittorica che rischia di nascondere eccessivamente quelle varianti espressive che pure esistono, e sono diventate parte del suo processo esecutivo. Russo parte da una fotografia che riporta sulla tela, eliminando però quel che ritiene superfluo. Se si guarda, per esempio, alla foto di partenza e la si confronta con la tela derivata – passando magari per i "retouché", ovvero le piccole opere in cui la fotografia iniziale è ancora perfettamente visibile, e il tocco della pittura vi si sovrappone accentuando o sminuendo determinati particolari, come in un grado intermedio del passaggio tra fotografia e pittura – si riconosce subito l'aspetto essenziale della scelta pittorica: la scena dipinta, così piena di particolari, di fatto è svuotata da un miriade di altri dettagli che nella realtà quotidiana ci sono ma che non vediamo. Le prospettive sono giuste, magari solo un po’ accentuate, i colori dei palazzi sono verosimili, ma non proprio gli stessi della realtà, i fili aerei ci sono, ma solo quando indicano delle forze dinamiche che si accompagnano alla veduta, le persone sono rare se non inesistenti, ma le auto sfrecciano ugualmente, i semafori sono "più semafori" perché magari ripetono la loro sequenza luminosa in assenza di astanti, il punto di vista è sopraelevato tanto da "tagliare" le auto a metà, ma nella totalità della veduta tutti questi dettagli operativi sfuggono di fronte all’impressione generale che spesso è quella di una città "senza patria", non facilmente identificabile. I cicli migliori di Russo sono infatti quelli che mostrano un’apparente indifferenza rispetto agli edifici, che quasi sempre sono scarsamente identificabili. Certo, chi abita a Milano riconosce quei posti, e così probabilmente chi abita a Seattle riconosce lo skyline della propria città, ma non è mai vero il contrario: Milano, o Chongqing, o Seattle appunto, sono riconoscibili solo ai propri abitanti, e anche a Istanbul – quando proprio non puoi fare a meno di porre sullo sfondo la cupola di Santa Sofia – la scena è occupata dall’anonimità di casette basse e di traghetti senza nome. Così, Russo dipinge certo le città – che ha visitato, dove ha vissuto, eccetera – ma dipinge soprattutto "la" città, così uguale a se stessa da aver perduto quelle caratteristiche culturali che identificavano un edificio o un agglomerato urbano come appartenente a una civiltà e non a un’altra. E’ la città “globale” di un continuo scorrimento di zone semiperiferiche. Ma è altrettanto paradossale riconoscere che queste scelte di particolari mancanti da un lato, di urbanisticastandard e anonima dall’altro, assumono una loro bellezza, creando – o rinnovando – l’interesse persino romantico che si trova nelle zone di passaggio, nell’attraversamento ma non nello stazionamento, di città dove tutti vivono ma dove nessuno abita.
Questo avviene perché la realtà dipinta e più vicina alla nostra realtà fisica di quanto non sia la fotografia, che non ci risparmia nulla dell’esistente. Ma l’esistente, tutto l’esistente, non è sempre l’importante, e in questo senso la pittura è più vicina alla nostra mente, ci ha liberato del superfluo, lasciandocigodere dell’impressione emotiva, pur assomigliando (e simulando) un’immagine completa, fotografica, del paesaggio ritratto. Così, con un sottile inganno, Russo ci restituisce una città più "vera" di quanto non pensiamo, più "vera" perché dipinta.
Dall'altra parte, dalla parte di chi guarda, sta ovviamente la volontà di essere ingannati, di riconoscere quel che non è, come è sempre avvenuto sin dal XVII secolo quando, nelle case dei mercanti olandesi, questi volevano ritrovare il loro campanile magari specchiantesi su un laghetto ghiacciato, in un piccolo quadretto appeso in salotto, o quando la campagna inglese di Thomas Gainsborough assomigliava sì alla tenute del Surrey o dello Yorkshire, ma anche un po’ all’Arcadia: è una forma di teatro per così dire statico, è la volontà di credere a quel che si vede, sapendo che è finzione.
Accanto a questo ciclo di paesaggi urbani, che si avvia ad essere il più prolifico nella sua attività, si è sviluppato e ancora si sviluppa il tema dei "porti". Di sicuro, Russo non teme il "genere" in pittura, visto che anche questi soggetti – il porto, la marina, la nave – rientrano nel tema antico della veduta specializzata (che conta, tra l’altro, ancora numerosissimi appassionati, se si considerano le varie aste di "maritime" che si svolgono ogni anno nel mondo…): del resto, le varie metafore che gravitano sul "porto" funzionano ancora magnificamente. Il porto come partenza, ma anche come approdo, come partenza che non avverrà più, nel caso dei relitti abbandonati sulle banchine dismesse, come passato arenato nel ricordo di vissuti ormai trascorsi, come ineluttabilità della fine, o più semplicemente come movimento comune eroutinario di grandi simboli – le navi – che ora non sono che enormi contenitori di vite anonime. Nei "porti" di Russo c’è tutto questo, non insieme ovviamente, ma scandito a sua volta da una scelta per così dire prospettica del soggetto marittimo. Una nave, un suo particolare (che magari arriva fino al confine della tela, con uno sguardo dal basso verso l’alto), un peschereccio abbandonato o in secca, pongono l’accento sulla vita silente (così De Chirico titolava le sue "nature morte", perché di fatto la consunzione dei frutti nasconde comunque una vita interiore …) nascosta all’interno del ventre metallico, che oltre alla vita umana dei pescatori e dei marinai contempla tutto un brulichio di altre vite animali, che corrodono e si cibano dei relitti; le vedute più da lontano – in “campo lungo”, si direbbe in linguaggio cinematografico -, inquadrano invece il porto nelle sue infrastrutture industriali, di nessuna attrattiva estetica in senso tradizionale, se non per quel bacino di blu che lambisce le strutture e che ci rammenta che fuori campo c’è la vastità orizzontale del mare, una promessa di libertà che contrasta con il senso di un paesaggio umano oleoso e rugginoso insieme.
Ci sono forti analogie tra questo ciclo – che data più o meno dai primissimi anni Dieci, quando Russo passa dai "paesaggi industriali" ai "Paesaggi urbani" – e gli altri periodi dell’artista, che consentono significative considerazioni tra coerenza stilistica della sua attività e sviluppo tematico, come tra uso della retorica classica e sguardi oggi più essenziali sul mondo.
In altre parole, c’è un prima e un dopo nella produzione artistica di Russo, e lo spartiacque sono i primi "Porti" e "Paesaggi urbani", rispetto ai di poco precedenti "Paesaggi industriali" e ai più lontani "Comizi", "Feste", "Concertini" e "Politicanti", risalenti agli anni Ottanta/Novanta del secolo scorso. Il passaggio si situa tra quello che potremmo definire un atteggiamento "sentimentale" nei confronti dei propri soggetti, e uno più distaccato, indifferente, asettico. Si tratta poi di un percorso graduale e abbastanza lento, che parte da un atteggiamento fortemente morale – e persino moralistico -nei confronti dei propri soggetti, per stemperarsi in una visione quasi esistenziale della realtà, in cui l’artista concede alla memoria uno spazio ampio, e attraverso l’evocazione sempre meno dichiarata, arriva al disincanto della città e delle città. Poco sopra si notava la differenza tra piani ravvicinati nelle vedute dei porti e campi lunghi: il particolare della nave, il peschereccio dismesso sono fortemente evocativi, mentre il campo lungo – soprattutto quello dei quadri più recenti – si appella meno alla retorica del mare e della fatica dei suoi lavoranti, e qui è il cuore del passaggio, il turning point del sentimento prima evidente, poi represso, soffocato, precluso, ma che ogni tanto ritorna, come nella serie – scarna, ma continua – dei "Recovery", ovverodelle opere ispirate da frammenti di oggetti e strumenti industriale ritrovati fuori uso nelle case e nei capannoni da abbattere. Anche in questo caso, l’incontro ravvicinato col frammento, che equivale al piano ravvicinato dei porti di cui si parlava poco sopra, suscita maggiormente la vena sentimentale ed emotiva dell’artista, che vi si abbandona nello stesso momento in cui dipinge le sue città più impersonali. Allo stesso modo, il pensiero corre ai “paesaggi industriali” che tratteggiano quelle "cattedrali nel deserto” che avrebbero dovuto trasformare un paese agricolo in uno industrializzato, e che sono poco a poco "rientrate" nel paesaggio naturale, come escrescenze sempre più irriconoscibili di un intervento umano destinato al disfacimento. In questo caso, non si può non pensare alla “calabresità” di Russo, che questi esperimenti li ha vissuti sulla propria terra, ma questo vago senso di denuncia appartiene al coté retorico ancor più presente nelle opere precedenti: nei "paesaggi industriali" il nucleo forte – e che per molto tempo è stato la cifra identitaria di Alessandro Russo – è il senso di disfacimento, di trasformazione di una struttura ancora evidente in un agglomerato informe, quasi "informale", memore forse della pittura di Nicolas De Staël, ma più dolente nel soggetto. È la "bellezza della rovina" trasferita nell'era industriale (non ancora post-industriale), dove anche il colore, quasi sempre costruito su un tono uniforme di base, contribuisce al crollo della struttura. E, in questo percorso a ritroso verso le origini della pittura di Russo – ricordando comunque che le origini non sono gli esiti… -, sono proprio i termini della tecnica e della trattatistica pittorica tradizionale a svelare quel mainstream concettuale che lega tutte le sue opere in questo lento movimento di rivoluzione tra sentimento edequilibrio: si è parlato da subito di "genere" e quindi, a cascata, di "veduta", di "paesaggio" – urbano, industriale e porto -, e ora si può parlare di "capriccio", per i "comizi", le "feste" e i "politicanti". Tra "capriccio" e "veduta" il passo è davvero breve, perché il "capriccio" – spesso con rovine – non è che una veduta inventata, un paesaggio ideale, o comunque un paesaggio dove si trovano tutti gli elementi atti a definire un’epoca, uno stile, ma anche un sentimento e uno stato d’animo. Capricci, vedute e paesaggi sono intimamente legati nella pittura di Russo, costituendo così un raro esempio contemporaneo di persistenza di modelli antichi, e se delle vedute e dei paesaggi – sia industriali che urbani – si è già parlato, vale ora raccontare delle opere più "vecchie", quelle che hanno fatto la piccola fortuna di un artista dotato e precoce, se è vero che la sua prima mostra risale a quando aveva solo quindici anni!
Di fatto, sotto la categoria riconosciuta dei "capricci" ricadono anche i "comizi" e le "feste2 che in Russo hanno una struttura costruttiva simile. Si tratta di piccole processioni, di astanti sotto un palco improvvisato, di maschere spesso grottesche in una landa quasi desolata (che assomiglia molto agli orizzonti dove sono allocati gli edifici dismessi dei "paesaggi industriali"), che tra gesti enfatici e magniloquenti accompagnano gli "arringatori" del palco. Anche qui, ben più che lo sberleffo ai rappresentanti del potere (in questi anni Russo dipinge anche molti "ritratti di magistrati", alla Honoré Daumier…) appare interessante l'atmosfera entro cui è costruita la scena, che ha la singolare capacità di risultare "senza tempo", ovvero di non essere identificabile con un preciso momento storico, grazie all'universalità geografica e cronologica delle maschere e delle allegorie che esse rappresentano. I "padri nobili" di questo genere di pittura sono molti, e vanno da Antoine Watteau al Giandomenico Tiepolo dei Pulcinella e del "Mondonovo", al Gino Severini degli anni Trenta su su fino a Mario Mafai della Scuola Romana, con quei colori terrosi che uniscono tutto – personaggi e oggetti, maschere e paesaggi – in un’unica atmosfera sognante e teatrale. Ma quando cala il sipario su questo palcoscenico, la scena si riapre sui nuovi paesaggi urbani, di cui non sappiamo ancora chi siano i loro abitanti.
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