15 Novembre 2023
Secondo una tradizione felicemente consolidata, il 28 ottobre scorso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini ha aperto al pubblico l’ennesima mostra “Un capolavoro per Milano” che durerà fino al 28 gennaio prossimo. Con simili eventi, grazie alla sua grande credibilità culturale e scientifica, il Museo presenta annualmente straordinarie opere di elevato contenuto artistico e religioso, prestate da prestigiosissime Istituzioni internazionali. A questo proposito, desidero qui, fra parentesi, ricordare che “Un capolavoro per Milano” costituisce una occasione così significativa da essere stata emulata perfino dal Comune. Quest’anno l’evento è dedicato all’Anta dell’Armadio degli Argenti (proveniente dal Museo Nazionale di San Marco a Firenze) che riporta le “Storie dell’infanzia di Cristo”.
La bellissima tavola magistralmente dipinta attorno al 1450 da Guido di Pietro Trosini (divenuto monaco domenicano con il nome di Giovanni da Fiesole e poi consacrato come “l’Angelico“ dal Vasari, forse per la squisita gentilezza delle sue figure) è parte di una più ampia composizione che costituiva la porta dello stipo commissionato da Piero de’ Medici per contenere i preziosi ex voto della Basilica della Santissima Annunziata di Firenze.
Devo dire che, nel corso degli anni, le opere del grande artista toscano mi hanno variamente coinvolto e incuriosito proprio per la loro apparente, nitida semplicità comunicativa. Fra le edulcorate “immaginette” che, quando ero ragazzo, confluivano nei nostri messali per celebrare vari eventi religiosi (come battesimi, prime comunioni o matrimoni), molte erano infatti ispirate all’elegante iconografia del monaco artista se non addirittura estrapolate direttamente dalle sue opere. In realtà, senza la necessaria adeguata contestualizzazione, quelle immagini apparivano certo gradevoli ma perfino un po’ dolciastre come se l’iconografia didattica della Chiesa dovesse essere surrealmente suadente e perfino un poco fiabesca: angeli ambigui, asinelli quasi umani, contesti edificati tanto gradevolmente colorati che quasi non sembravano appartenere a questo mondo. Più avanti negli anni, lungo gli studi classici, ebbi la fortuna di affrontare piuttosto seriamente la storia dell’arte del nostro Paese e, addirittura, di poter effettuare (come si cominciava allora virtuosamente a fare) una gita scolastica a Firenze: in quella circostanza la visita al Museo Nazionale di San Marco mi fece soprattutto “scoprire” gli affreschi che l’Angelico, assieme ai suoi collaboratori, aveva realizzato nelle celle dei confratelli per facilitare la loro concentrazione sui temi di fede, per assecondare la loro meditazione. Mi aveva molto colpito l’angelo annunciante che ora si incontra salendo le scale che portano al primo piano; inoltre, mi aveva colpito l’estrema, essenziale semplicità delle icone rappresentate sulle pareti disadorne delle celle dei monaci.
Avendo insegnato per molti anni alla Facoltá di Architettura dell’Universitá di Firenze, ho avuto spesso occasione di accompagnare conoscenti di passaggio e colleghi di altri Atenei a visitare luoghi significativi della cittá; fra questi ho sempre compreso il Museo Nazionale di San Marco. Grazie a queste occasioni la conoscenza dell’Artista si faceva di volta in volta più approfondita e convinta soprattutto a proposito delle molte tavole presenti nel salone al piano terra: da architetto ammiravo le belle costruzioni e i raffinati ambienti che l’abilissimo monaco aveva rappresentato con la competenza di un raffinato paesaggista e la creatività di un illuminato maestro del colore.
L’altro giorno, partecipando all’inaugurazione della mostra dedicata alla magistrale tavola dell’Angelico, accompagnato da Alessia Devitini (uno dei conservatori del Museo), la mia conoscenza sull’opera del maestro si è fortemente completata. I contributi scientifici di Angelo Tartuferi (Direttore del Museo Nazionale San Marco), di Gerardo De Simone (storico, esperto conoscitore dell’Angelico), di Nadia Righi (Direttrice del Diocesano) e dello stesso monsignor Bressan (che ne ha commentato la portata concettuale e le valenze religiose) mi hanno fornito molti esaurienti spunti di riflessione quali normalmente non si ricevono perfino approfondendo l’opera prima di visitarla (vale la pena di sottolineare che questi contributi sono in gran parte presenti sul bel catalogo che il Diocesano ha pubblicato in questa occasione).
Vista dopo la semplice ma esauriente presentazione, in un contesto particolarmente ben strutturato per preparare il pubblico a conoscere l’opera (nell’elegante allestimento concepito dallo studio dell’architetto Colombo), la tavola dell’Angelico appare alla fine in tutta la bellezza e in tutti i suoi profondi significati; essa dischiude le molteplici importanti riflessioni che, in un caso come questo, occorrono per comprendere tutti gli aspetti non direttamente espliciti della bellissima opera.
L’Anta presentata, accuratamente restaurata e studiata allo scopo, rivela tutta la sua potenza espressiva; l’estrema qualità del modellato delle persone e degli ambienti, la certosina precisione della scena, l’incredibile pulizia del tratto e il nitore dei colori (ottenuti con pigmenti di grande qualità) concorrono simultaneamente al raggiungimento di un importante godimento estetico.
L’Anta dell’Armadio degli Argenti appartiene alla piena maturità dell’artista monaco: non solo essa appare in tutta la sua portata estetica bensì anche in tutta la sua sorprendente, strutturata complessità. I riquadri della mirabile anta (salvatasi dalla dispersione sul mercato antiquario, come è avvenuto per molte opere dell’Angelico) riassumono infatti per immagini la storia della “Salvazione” grazie alla comparsa di Cristo secondo il pensiero di Tommaso d’Aquino: la legge dell’Amore introdotta dal Nuovo Testamento soppianta quella del Timore dell’Antica Tradizione. Le preziose tavolette che scandiscono l’Anta costituiscono, come sotttolineato dai due cartigli (posti rispettivamente nella parte alta e all’esergo), un esemplare, monumentale itinerario iconografico didattico-religioso. Questo incontro con l’Angelico convince definitivamente che l’Autore è molto di più di un bravo monaco affabulatore, di un ottimo pittore di genere come molti ritenevano ma uno dei principali attori della transizione dal Gotico al Rinascimento: a buon diritto, oggi finalmente egli rappresenta uno dei più significativi maestri del periodo. Mentre gli affreschi che l’Angelico e i suoi collaboratori hanno realizzato per agevolare la meditazione dei monaci nelle celle del convento di San Marco, ci appaiono forti, sintetiche e perfino un po’ surrealiste, le tavole dell’Angelico per la porta dell’Armadio sono il meticoloso affascinante compendio di un articolato assunto religioso come certe opere monumentali del Medioevo (penso alla “Commedia” di Dante). Esse si sviluppano secondo le logiche di una struttura narrativa geometrica nell’impianto ma modernissima nei suoi modi espressivi rinascimentali che rimandano a Masaccio, ad Antonello da Messina e, comunque, alla fulgida tradizione dei miniatori (nella quale peraltro egli rientra).
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