27 Maggio 2025
“Non mi era mai capitato di operare al buio”. Parole che lasciano poco spazio all'immaginazione, quelle pronunciate dalla dottoressa Tiziana Riggio, chirurga volontaria italiana dell’associazione Ideals, impegnata a Gaza per curare le vittime del conflitto. La sua testimonianza, raccolta in un video che sta facendo il giro del web, parla delle condizioni estreme in cui i medici sono costretti a lavorare all’interno delle strutture sanitarie della Striscia.
La missione umanitaria della dottoressa Riggio si svolge in un contesto definito da lei stessa come “un inferno di ferite, ustioni e dolore”, dove a pagare il prezzo più alto sono soprattutto donne e bambini. Le sale operatorie, già affollate e sotto pressione, sono diventate luoghi di disperazione in cui mancano anestetici, analgesici, garze, disinfettanti e persino guanti della misura giusta.“Capita di dover operare con guanti di due taglie più grandi, senza suture e con scorte sempre più limitate. Ma ciò che più mi sconvolge è la mancanza di anestesia. I bambini escono dalla sala operatoria in agonia, completamente svegli, con ferite gravissime”, racconta la chirurga.
Dal 7 ottobre 2023, dopo l’attacco di Hamas, lo Stato d’Israele ha intensificato i bombardamenti sulla Striscia, generando una crisi umanitaria che, secondo molti osservatori, ha colpito in modo sproporzionato la popolazione civile. Gli ospedali, già messi a dura prova, sono ora allo stremo: blackout improvvisi, carenze di materiali di base e un afflusso continuo di feriti rendono la situazione pressoché ingestibile.
La dottoressa Riggio parla di traumi cranici, fratture esposte, amputazioni e ferite da esplosione che richiederebbero cure complesse e immediate, ma che spesso vengono trattate in condizioni rudimentali. “In Europa non vediamo questo tipo di lesioni nei bambini. Qui la guerra colpisce ogni cosa, ogni vita, ogni possibilità di cura.”“Non è solo la mancanza di farmaci a far male. È la sensazione che, in questa guerra, nessuno sia risparmiato. Nemmeno i più piccoli.”
Il suo racconto rappresenta una denuncia umana e professionale sul genocidio in atto, ma anche un grido d’allarme alla comunità internazionale.
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