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Riforma delle elezioni comunali: la falsa semplificazione che tradisce trent’anni di democrazia locale e compromette la sovranità popolare

La possibilità di eleggere un sindaco con il 40% dei voti validi – quindi, potenzialmente, con una minoranza assoluta dei votanti reali – introduce un paradosso: un governo locale forte ma poco legittimato. Il premio di maggioranza fisso del 60% rischia di generare maggioranze artificiali, sproporzionate rispetto al consenso ottenuto. E la soppressione del voto disgiunto elimina ogni spazio per la libertà dell’elettore

11 Ottobre 2025

Elezioni comunali Torino, ultimi sondaggi politici elettorali: è sfida a due

La democrazia italiana, nella sua articolazione locale, ha saputo negli ultimi trent’anni produrre uno dei modelli istituzionali più solidi e funzionali della nostra Repubblica: l’elezione diretta del sindaco con il doppio turno. Introdotto con la legge n. 81 del 1993 e consolidato nel Testo unico degli enti locali (TUEL), questo sistema ha garantito rappresentanza politica, governabilità e – elemento non secondario – una partecipazione civica autentica, basata sulla responsabilizzazione diretta dell’elettorato. Oggi, però, questa architettura rischia di essere demolita. Il disegno di legge n. 1451, presentato dai capigruppo della maggioranza Malan, Romeo, Gasparri e Biancofiore, introduce modifiche profonde per l’elezione dei sindaci nei Comuni con più di 15.000 abitanti: abbassamento della soglia di elezione al primo turno dal 50% al 40%, abolizione del ballottaggio, premio fisso di maggioranza del 60% dei seggi e soppressione del voto disgiunto. I promotori parlano di “semplificazione”. Ma dietro questa parola, così suggestiva quanto ambigua, si cela una forzatura istituzionale che mette a rischio non solo il pluralismo, ma anche la qualità della rappresentanza democratica.

Un modello di equilibrio che funziona

Il doppio turno non è un orpello burocratico: è uno strumento di sintesi politica. Consente a elettori e forze politiche di esprimersi in libertà al primo turno, e poi ricompattarsi attorno a una leadership e a un progetto condiviso al secondo. Questo meccanismo ha generato coalizioni solide, ha responsabilizzato i candidati sindaco, ha premiato chi è stato capace di aggregare, non chi ha diviso. L’introduzione del voto disgiunto, poi, ha aperto uno spazio prezioso per l'autonomia dell'elettore: scegliere un sindaco da una parte e una lista civica dall’altra ha significato valorizzare le realtà locali, fuori dalle gabbie dei partiti. In una Repubblica che riconosce autonomia agli enti locali (art. 5 Costituzione), questo è un punto politico fondamentale.

Le nuove regole: più efficienza o meno democrazia?

Il disegno di legge 1451 rompe questo equilibrio. La possibilità di eleggere un sindaco con il 40% dei voti validi – quindi, potenzialmente, con una minoranza assoluta dei votanti reali – introduce un paradosso: un governo locale forte ma poco legittimato. Il premio di maggioranza fisso del 60% rischia di generare maggioranze artificiali, sproporzionate rispetto al consenso ottenuto. E la soppressione del voto disgiunto elimina ogni spazio per la libertà dell’elettore. Tutto questo, in nome della semplificazione? Ma quale efficienza può valere il prezzo della compressione del pluralismo e della sovranità popolare?

Un rischio plebiscitario

La concentrazione del potere nelle mani del sindaco, già forte per previsione normativa, verrebbe aggravata dal nuovo assetto. Il Consiglio comunale, svuotato del ruolo di rappresentanza politica e ridotto a camera di ratifica del sindaco, non sarebbe più il luogo della dialettica democratica ma dell’obbedienza maggioritaria. È questa la visione liberale del governo locale? Il sistema proposto non rafforza la democrazia, ma la semplifica fino a svuotarla. Come ha osservato il costituzionalista Salvatore Curreri, si rischia di costruire un “modello plebiscitario” in cui la forza elettorale si trasforma automaticamente in potere decisionale, senza bilanciamenti.

Motivazioni opache, conseguenze evidenti

Si ha l’impressione – legittima, ma preoccupante – che dietro la riforma si celi un calcolo politico di parte: nei grandi centri urbani, dove la sinistra ha tradizionalmente un vantaggio, si cerca di ribaltare la situazione attraverso modifiche normative che blindano la vittoria al primo turno. Ma legiferare per ragioni contingenti è pericoloso, perché apre la strada a una torsione del diritto elettorale che mina la neutralità delle regole del gioco. La vera riforma dovrebbe guardare al lungo periodo, non al prossimo appuntamento elettorale. Il Parlamento non può accettare una visione strumentale dell’assetto istituzionale. Le regole si cambiano se sono disfunzionali, non se si vuole correggere un esito politico sfavorevole.

Una lezione liberale: meno Stato, più cittadino

Da liberale, credo che la buona amministrazione non si costruisca semplificando la democrazia, ma rendendola più trasparente, accessibile, e fondata su un patto fiduciario autentico tra cittadini e istituzioni. Il doppio turno, il voto disgiunto, il premio di maggioranza solo se supportato da un consenso solido: tutto questo non è un ostacolo, ma un presidio di libertà. Il modello attuale ha retto per oltre trent’anni, ha garantito stabilità anche in fasi politiche complesse, e ha dimostrato di funzionare. Cambiarlo ora, senza una motivazione sistemica, significa rompere un equilibrio istituzionale per convenienza politica.

Lvera modernità è la responsabilità

Non è con il 40% che si costruisce una guida autorevole, né con una maggioranza automatica che si guadagna legittimità. Il governo locale ha bisogno di sindaci forti e legittimati, non semplicemente di vincitori. Ha bisogno di consigli pluralisti e attivi, non di corpi passivi e omologati. Il Parlamento ha davanti a sé una scelta che va oltre i numeri: difendere un modello democratico che ha fatto scuola, o assecondare una deriva semplificatrice che rischia di minare la fiducia dei cittadini. Chi crede davvero nelle autonomie locali, nella libertà politica e nella responsabilità degli amministratori, non può sostenere questa riforma. La democrazia non si misura in velocità, ma in qualità. E la qualità si ottiene solo quando i cittadini hanno la possibilità di scegliere liberamente, consapevolmente e pienamente. Il resto è gestione del consenso, non governo della cosa pubblica.

 Di Riccardo Renzi

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