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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

la visione di Mahavira dell’inferno come conseguenza delle passioni umane e come esperienza possibile già nella vita quotidiana.

vivere l’Inferno prima di morire -la sofferenza in vita secondo Mahavira è un anticipo di ciò che potremo vivere nell’aldilà

Mahavira, figura centrale del pensiero giainista. Attraverso la sua dottrina dell’inferno, concepito non come punizione divina ma come effetto naturale del karma , emerge una concezione che unisce cosmologia, etica e una sorprendente anticipazione della psicologia moderna. L’inferno non è solo nell’aldilà: è uno stato interiore generato da ira, avidità, inganno e attaccamento, e proprio per questo può essere superato.

16 Dicembre 2025

vivere l’Inferno prima di morire -la sofferenza in vita secondo Mahavira è un anticipo di ciò che potremo vivere nell’aldilà

Prima di sperimentare gli insegnamenti di Shri Mataji Nirmala Devi, ignoravo l’esistenza di Shri Mahavira, così come probabilmente ne ignorano l’esistenza la maggior parte degli occidentali. Eppure il suo nome ricorre più volte negli insegnamenti della fondatrice di Sahaja Yoga, che lo indicava come un’incarnazione divina la cui essenza si riflette in ogni essere umano nel sesto chakra, sul lato destro, all’apice dell’Ida Nadi: il canale sinistro del desiderio e delle emozioni, ma anche del subconscio personale e collettivo.

Questa scoperta apre uno scenario che va ben oltre l’interesse religioso o storico. Mahavira, vissuto nel VI secolo a.C. e riconosciuto come il fondatore del Giainismo, non è soltanto una figura dell’India antica, ma diventa, in questa prospettiva, un principio interiore, una dimensione della coscienza che riguarda direttamente il rapporto tra emozione, memoria, desiderio e l'umana sofferenza.

Nei testi canonici giainisti (Sūtrakṛtāṅga, Bhagavatī Sūtra, Tattvārtha Sūtra), Mahavira affronta senza ambiguità il tema dell’inferno (Nāraka). Ma lo fa in modo radicalmente diverso rispetto alle tradizioni teologiche occidentali.

L’inferno non è una punizione inflitta da un Dio giudice, né una condanna eterna: è l’effetto naturale del karma, cioè delle azioni, delle parole e dei pensieri che l’essere vivente ha prodotto.

Come afferma la tradizione attribuita ai suoi insegnamenti: «L’essere vivente è il creatore di sé stesso. Non è un dio, non è un demone, non è un altro a condurlo negli inferni.»

La cosmologia giainista descrive sette inferni, collocati nei livelli più bassi dell’universo. Sono mondi di oscurità, di calore estremo o di gelo, di sabbia rovente, di fumo soffocante e di tenebra assoluta. Le descrizioni sono vivide, talvolta disturbanti, ma il loro significato è chiaro: l’ambiente infernale non è altro che la proiezione del karma accumulato.

Nei testi si legge che il corpo dell’essere infernale non è un corpo fisico, ma un corpo karmico:«Il corpo dell’inferno è fatto di ciò che l’essere ha compiuto.»

Il dolore non viene inflitto dall’esterno; nasce dall’interno. Il fuoco, il gelo, l’oscurità non sono strumenti di tortura, ma forme della coscienza oscurata dalle passioni.

Mahavira individua quattro passioni fondamentali (kaṣāya) come cause principali della discesa infernale: l’ira, l’orgoglio, l’inganno e l’avidità. Quando queste passioni diventano dominanti, l’anima si appesantisce, perde la sua naturale luminosità e scivola verso stati di sofferenza sempre più intensi.

Il Sūtrakṛtāṅga sintetizza questo principio con parole inequivocabili:«La collera è fuoco, l’avidità è catena, l’inganno è oscurità.Dove queste dimorano, lì è l’inferno.»

Mahavira e l’intuizione psicologica: l’inferno come dinamica interiore

È a questo punto che il pensiero di Mahavira rivela una profondità che sorprende anche il lettore moderno. Molto prima della nascita della psicologia come disciplina scientifica, il maestro giainista aveva già individuato meccanismi interiori che oggi definiremmo psicologici: la correlazione tra emozioni distruttive e sofferenza anche fisica, tra repressione, attaccamento e disintegrazione interiore, tra perdita di consapevolezza e dolore persistente.

L’ira, descritta come “fuoco”, non è soltanto un vizio morale, ma uno stato mentale che consuma chi lo prova. L’avidità, definita “catena”, anticipa l’idea moderna di dipendenza. L’inganno, associato all’oscurità, richiama quella condizione di autoinganno che la psicologia contemporanea riconosce come una delle principali fonti di alienazione.

Mahavira non analizza l’anima in termini astratti: osserva il funzionamento della mente umana. E afferma, con sorprendente lucidità, che la sofferenza non nasce dagli eventi, ma dal modo in cui la coscienza vi reagisce. In questo senso, l’inferno non è altro che la cronicizzazione di stati interiori non governati.

In un passo attribuito alla tradizione mahaviriana si legge: «L’uomo dominato dalle passioni vive in una notte senza stelle, anche sotto il sole.»

Una formulazione che potrebbe essere letta oggi come la descrizione di uno stato depressivo, ansioso o dissociato, in cui la realtà esterna rimane intatta ma l’esperienza soggettiva è oscurata.

Ed è qui che il pensiero di Mahavira compie un passaggio decisivo. L’inferno non è solo una possibilità dopo la morte. Può essere vissuto integralmente già durante la vita umana.

L’uomo dominato dall’ira vive costantemente nel fuoco. Chi è prigioniero dell’inganno vive nella nebbia e nella paura. Chi è schiavo del desiderio vive nella fame incessante. Chi coltiva odio e rancore abita un’oscurità interiore che nessuna luce esterna riesce a dissipare.

È difficile non riconoscere in queste intuizioni antiche un’eco delle sofferenze contemporanee: ansia cronica, rabbia diffusa, alienazione emotiva, senso di vuoto. Ciò che oggi viene affrontato con categorie cliniche, Mahavira lo aveva già interpretato come separazione dell’anima dalla propria natura originaria, che nel Giainismo è pacifica, consapevole e non violenta.

In questa prospettiva, l’inferno più doloroso non è quello cosmologico, ma quello vissuto quotidianamente, spesso senza esserne consapevoli. È l’inferno dell’agitazione costante, della mente che non trova quiete, del cuore che non conosce pace.

E tuttavia, Mahavira rifiuta ogni visione disperata. Nessun inferno è eterno. Nei testi si legge chiaramente: «Il dolore dura quanto dura la causa che lo genera. Quando la causa cessa, anche l’effetto si dissolve.»

La via indicata non passa attraverso la fede dogmatica, ma attraverso una disciplina concreta e radicale: non violenza (ahiṃsā), verità (satya), non attaccamento (aparigraha), autocontrollo delle passioni. Non come precetti morali astratti, ma come strumenti di trasformazione interiore, diremmo oggi quasi terapeutici.

Spegnere l’ira significa spegnere il fuoco. Sciogliere l’avidità significa rompere le catene. Abbandonare l’inganno significa tornare alla luce.

In un’epoca segnata da inquietudini profonde e spesso senza nome, il pensiero di Mahavira si rivela di una lucidità disarmante. Gli inferni non sono luoghi remoti né minacce ultraterrene. Sono possibilità quotidiane, generate dalle nostre stesse passioni. E proprio per questo, conclude il maestro giainista , non sono un destino. Sono uno stato reversibile della coscienza.

 

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