11 Novembre 2025
Cara Marisa,
come sai ti ammiro sia come artista che come editore e non è semplice per me intervistarti data l’ampiezza e il carattere multiforme delle tue attività e dei tuoi carismi ma vorrei che ci aiutassi a comprendere e condividere meglio il tuo percorso creativo, che ritengo molto stimolante. Partiamo da una tua opera che ho ammirato al Museo Nazionale di Ravenna l’anno scorso e che appariva come un laboratorio alchemico. Ho percepito un grande fascino, dato anche dall’ambiguità della percezione dell’opera tra antichità e impatto pop. Come sei riuscita a vincere questa difficile sfida?
Caro Giacomo,
credo che la mia formazione di architetto, laureata in restauro e consolidamento dei monumenti, abbia influito anche sul mio fare arte. Sin dai tempi universitari amavo organizzare le mie mostre in spazi desueti per il contemporaneo. Rocche e castelli erano fra i miei preferiti. L’Antica Farmacia del Museo Nazionale, spazio denso di memoria e di storia, mi ha subito affascinato. Il grande banco da farmacia settecentesco, gli albarelli e gli orcetti, le teche con gli antichi bronzi collocati nelle prime due sale, tutto parlava di memorie e di vite passate. Quando la direttrice Emanuela Fiori mi ha invitato per una mostra da allestire in queste sale ne sono stata entusiasta. Due anni di lavoro per riprendere confidenza con le ceramiche che dagli anni ’90 avevo abbandonato, eseguendo “esercizi di stile” riproducendo albarelli e orci in due serie ben precise: in bianco e in nero, un ideale yang e yin. Poi un lasciarsi andare immaginandomi come un apprendista alchimista. Così ho disegnato una serie di fantastici alambicchi che ho poi realizzato in ceramica a ingobbio nero e in vetro soffiato. Tutto a partire da una coppia alchemica (Mercuriale I e Mercuriale II). L’ingobbio e lo smalto nero dei pezzi incisi a punta di bulino hanno da subito determinato uno scarto visivo di forte impatto emozionale con il preesistente. Era ciò che volevo. Una esaltazione armonica fra passato e presente. Poi ho mescolato ceramiche e vetri, gli uni che si incastrano negli altri in una accumulazione ideale per contrasto. Volevo che il soffio leggero e vitale dei vetri si innestasse nella nigredo della pelle degli oggetti ceramici…
Un altro tuo approfondimento che mi è sembrato affasciante è la tua ricerca sui Labirinti. Perchè hai voluto affrontare un tema così difficile, immenso e ancestrale?
Il labirinto è simbolo di conoscenza e iniziazione. È un enigma, una sorta di mandala esoterico. I fogli-preghiera regalatimi da mia figlia Andrea dopo un viaggio in Cina mi hanno ispirato per dare l’abbrivio a questa sorta di rituale iniziatico. Un mantra archetipale percorso fino a ritrovare la mia forma figurale nella sua stessa forma: a spirale, quadrata, circolare, triangolare, a composizione mista e fantastica, cerebrale, a stella, con il centro perfetto oppure senza né inizio né fine. Incrociando nodi e intrecci. Ritrovando il senso mistico di un immaginario collettivo. Riunendo e spezzando ouroboros alchemici per dare vita, in fondo, agli stati primitivi più nascosti della mia archeologia personale. In fondo, un rinnovato percorso alchemico dalla nigredo all’albedo. Un andare all’origine del mondo in un processo di permutazione, che secondo la Kabbalah è elevazione.
Quale nuovo progetto artistico stai realizzando?
Dopo il ciclo Uomo | Natura – un gioco fra naturale e artificiale dedicato agli alberi in vetroresina e alle sezioni di un albero ultracentenario, con l’alfabeto ebraico quale denominatore comune – ora sono impegnata nel progetto Costellazioni celesti. Si tratta di 22 crogiuoli in vetroresina color antracite – 22 come gli alberi eretici/ermetici, 22 come le lettere dell’alfabeto ebraico, 22 come gli Arcani Maggiori dei Tarocchi, perché tutto è numero! – all’interno dei quali sono collocate 22 lastre in alluminio lucidato a specchio dalla cui nigredo emergono segni specchianti, lame di luce a rappresentare costellazioni immaginarie. Il disegno delle diverse costellazioni si innesta su fogli giapponesi del periodo Edo, un regalo di mia figlia da Tokyo. E ancora una volta le diramazioni di senso si dilatano.
L’idea di congiungere l’immagine del crogiolo, già metallurgica e alchemica, con quella delle stelle la sento veramente potente, originale in quanto originaria. Tutte queste forme della tua arte mi fanno pensare che credi che l’arte sia parte di una mitopoiesi più ampia, anche cosmica, spirituale; come un processo incessante. Sbaglio?
Hai centrato perfettamente ciò che per me è l’arte. Come in alto così in basso… Perché tutto è Uno. L’Arte è un “carattere di vita” che ci unisce agli altri, nella nostra solitudine. Un carattere che testimonia la nostra ricerca interiore, o meglio il nostro “disordine interiore”, per dirlo con le parole di Maurice Merleau-Ponty. Cercare di scoprire qual è la relazione che ci lega all’assoluto per il “sapere di noi”. Cercare di ascoltare quel movimento interiore che vuole emergere e renderlo concreto in quel qualcosa di unico che sa di miracoloso che è il fare arte. Perché scegliere l’arte come specchio di noi significa aderire ad una iniziazione di esistenza vera. Amo il rigore e la tensione fra forma e pensiero. Perché al centro dell’opera c’è sempre l’idea, il pensiero, la relazione. Ho sempre cercato di muovermi con precisione nella complessità del vivere lavorando sul tempo, nel tempo della memoria. Solo così ci si accorge che ogni più piccola cosa ha un suo peso e una sua significanza. Le impronte, le tracce che sono in noi sedimentate riemergono per un’urgenza del dire e del fare. Per esprimere la nostra singolare-plurale essenza. Così, come per gemmazione, ogni ciclo immaginato si forma e si concretizza per una collezione rizomatica di frammenti.
Parliamo di Graphie: la tua rivista, che trovo estremamente elegante e coraggiosa. La tua rivista affronta temi molti vasti e profondi con stile e grazia e in modo che tutti gli autori declinino i temi che tu indichi in modo originale e plurimo. L’utilizzo delle foto poi mi ricorda i tempi migliori di FMR mentre certi numeri nei temi approfonditi mi ricordano Abstracta. Come sorge questo tuo percorso?
Avere per mestiere la propria “passione” è la fortuna più grande che ci possa capitare. Graphie è nata 28 anni fa ed è ciò che mi appassiona di più fare, insieme all’arte. FMR è un riferimento straordinario sotto tutti i punti di vista, a partire dal carattere “Bodoni” tanto amato da noi architetti. Franco Maria Ricci è stato sicuramente un maestro ideale per me. Ho voluto conservare l’abitudine di applicare le immagini a colori, a mano, per ricordare la nostra prima collana d’arte: “Arreton”, composta da cataloghi che documentavano le mostre da me curate, dedicate agli artisti proposti a Cesena, nella Galleria comunale d’arte che ho diretto per 8 anni sulla base di 2 concorsi nazionali vinti. La Collana si compone di una serie di oltre 40 libri stampati su carta Fedrigoni, in tiratura limitata (n. 500 copie numerate) tutti rigorosamente a 64 pagine con le opere riprodotte a colori applicate a mano. Un lavoro folle ma bellissimo…
L’editoria può essere una forma d’arte, o una meta-arte?
Sicuramente! Quando studiavo a Firenze ricercavo le edizioni più particolari sia di poesia che d’arte. Forse si tratta di una deformazione professionale ma credo sinceramente che un contenuto di valore debba avere anche un “contenitore” speciale, a partire dal formato, come per Graphie. Le collane della nostra casa editrice Il Vicolo sono tutte molto particolari sia nel formato che per caratteristiche grafiche. Le curo tutte personalmente, così come seguo tutte le “messe in stampa” dei nostri libri.
Qual è lo stato dell’arte oggi e perchè è così difficile riconoscere le reali tendenze in atto (se ci sono)?
È indubbiamente difficile parlare dello stato dell’arte di oggi. Vediamo di tutto e di più celebrato in luoghi sacri dell’arte ma troppo spesso il Re è nudo. Troppi interessi ruotano intorno a questo mondo. Le riviste sono tutte, per lo più, prezzolate. Pensiamo poi alle Biennali… con il denaro non dico che tutto, ma molto sicuramente sì, è possibile comprare. Esistono lobby vergognose fra musei, direttori e curatori. Anche la politica è spesso coinvolta in questi giochi di potere. Per quanto concerne tendenze e artisti mi sono ritrovata spesso a celebrare personaggi bravissimi ma sconosciuti ai più, penalizzati per il loro carattere spinoso. Non amo chi segue le mode perché credo che ogni artista, così come ogni poeta, ogni scrittore, sia unico e debba dunque catturarci per quella sua unicità che lo contraddistingue. Amo ricercare quegli artisti nascosti e dimenticati, che non sono stati baciati dalla fortuna ma solo dal talento. Fra i giovani mi piace frequentare gli studi più sperimentali ma classici, quelli di artisti che sanno rinnovare le tecniche antiche, musive e ceramiche.
Forse la dimensione consumistica e mercantile dell’arte nella società di massa ha ridotto territori comuni di discussione e di incontro? Oppure semplicemente l’iper-specializzazione ha scisso forme d’arte prima più vicine e dialoganti?
Temo di sì. Basti pensare che anche le Banche trattano arte con i loro consulenti. Gli artisti vogliono fare successo subito, cercano la fama, inseguono le mode. Sono pochi quelli veramente vocati all’arte. Credo in un concetto di stampo più rinascimentale per il vero artista. Anche le frequentazioni fra artisti nelle diverse discipline è fruttuoso. L’iper-specializzazione non premia.
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