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“Phantom of the Paradise” e “Carrie”, due esempi di incursione nel genere horror all’interno del cinema di Brian De Palma

Due pellicole storiche e riconosciute internazionalmente, che hanno resistito alla prova del tempo, entrambe dirette dal celebre Brian De Palma

08 Settembre 2025

Brian De Palma

Brian De Palma, fonte: X, @mymovies.it

Phantom of the Paradise” (1975) è una pellicola energica e composita, attraversata da un dinamismo sfrenato e trascinante. In essa le immagini proliferano, si fondono e confondono, diversificano il linguaggio e la visuale narrante che inquadrano uno stesso evento o particolare – anche attraverso l’uso dello split screen. La loro composizione e scomposizione è funzionale a congegni narrativi che mettono in zone talvolta denotative e talvolta fittamente connotative, ma che hanno tutte una spinta propulsiva potentissima e una capacità unica di sintesi; riuscendo, di fatto, a proporre un iperrealismo che quasi travalica i limiti fisici, materiali della messa in scena, al servizio di un contesto, però, sostanzialmente metafisico e al contempo mai così metaforicamente calato nel cuore di temi topici della modernità. I punti di visuale hanno una orditura mandalica e la potenza degli espedienti di regia incalza con trovate ora ingenue ora geniali. Come sembra dichiarare il titolo originale ("Phantom of the Paradise"), il paradiso della contemporaneità è là dove si appare, là dove ci si crea personaggi di successo consegnando la nostra immagine a essere propalata in modo seriale, proposta e riproposta come quella di una star iconica in un dipinto di Warhol. E la massificazione del gusto del pubblico, la sua assuefazione a ciò che fa sensazione e strepito fino alla consunzione di ogni favella di intelligenza e capacità di distinguere la fantasia dalla realtà e viceversa, è uno dei temi del film. Appare fin dall’inizio della pellicola quanto De Palma abbia le idee chiare, facendo marchiare a fuoco il volto del protagonista da una pressa per la produzione di dischi, rendendolo vittima di un Logo simile allo stigma di un capo di bestiame (simbolo di un’industria dell’intrattenimento che riduce i soggetti alla condizione di oggetti). E tutto l’apparato e la compagine di una macchina di produzione gargantuesca di spettacolo risulta, da subito, come una realtà lutulenta e corrotta.

Winslow Leach, il protagonista, è già un autore seppure giovanissimo, ma alla rifinita e luciferina star del pop cui propone la sua musica è proprio tale autorialità, così come il suo aspetto scialbo e anonimo, che appaiono da subito degli ostacoli; come nel contesto della splendida soggettiva iniziale in cui vi sono ben tre piani nella profondità di immagine, di cui due di perfetta messa a fuoco (le mani guantate di Swan in soggettiva, il volto del suo collaboratore e scagnozzo che a lui si rivolge rivolgendosi  contemporaneamente allo spettatore) e il più lontano, fuori fuoco (che sembra così defilato e anonimo da lasciar trasparire il destino stesso del protagonista che lo occupa: Winslow) e poi a fuoco, tempestivamente, quando necessario alla diegetica introduttiva di queste sequenze.

Durante il provino Winslow suona una musica intensa e avvolgente con trasporto, e la telecamera gli ruota intorno in maniera altrettanto avvolgente, mentre tocchi di realismo corroborano la scena: persone che passano sullo sfondo e la sagoma di una donna che spazza in primissimo piano, e che fende la visuale dello spettatore sul pianista per qualche istante con un frusciare sonoro di setole che prevale per un attimo sulla musica. In questo film il sonoro e le immagini sono al servizio di una postura registica visionaria, iperbolica e al contempo disseminata di dettagli robustamente concreti che aggiungono un senso nuovo al termine “allucinato”: è la stessa forma di realismo di un incubo o di un viaggio da LSD, tutto è trasfigurato, deformabile e deformato, ricco di mondi cromatici quasi innaturali per squillante intensità, ma vissuto dallo spettatore come perfettamente reale, anche quando improbabile, e anzi intriso di un suo senso ineffabilmente cogente.

L’intento di Swan è quello di gabbare Winslow, adombrando per esso la possibilità di un contratto al solo scopo, in realtà, di trafugare gli spartiti della sua composizione dall’argomento presago: è una cantata pop sul mito di Faust. Il pingue scherano di Swan, Philbin, entra nel camerino dell’ignaro Winslow per attuare il piano ed è qui che assistiamo a un espediente di regia straordinario che deve forse molto al mondo cartoonesco: la mano del malintenzionato, nella zona più a ridosso dello spettatore, poggia sulla grossa pila di spariti di Winslow ma manca di fuoco come i fogli stessi. La messa a fuoco invece coglie ancora i volti dei due che “contrattano”; ma pochi istanti dopo, sul finire delle promesse di Philbin, essa cade sugli spartiti e sulla sua mano che comincia a tamburellare con le dita sulle pagine, come a esplicitare che è la mano di chi sta tramando per entrarne in possesso con l’inganno.

Il film subisce un’accelerazione che esaurisce il discorso sulla sventura e sul cambio di identità del protagonista, da ragazzo verecondo e impacciato a “mostro” sfigurato nel volto e nella voce, dal volto pallente e le labbra dipinte di nero, denti metallici (macabro regalo dell’amministrazione carceraria sovvenzionata dallo stesso Swan), vestito di pelle borchiata, mantello e maschera color argento; concorrono a tale spiccia rapidità espedienti di narrazione ellittici e grotteschi, per poi portare nel cuore della pellicola in cui Winslow (il fantasma e l’autore fantasma) dopo aver sabotato le prove dello spettacolo “apocrifo” basato sulla sua musica, scende a patti col suo aguzzino materiale e spirituale al solo fine di donare la propria arte compositiva al talento della sua concupita: Phoenix. Indimenticabile è l’immagine che conduce lo spettatore in una carrellata unica, dal dispositivo elettronico sul petto del fantasma alla sezione dei cavi e cavetti che vanno a ricongiungersi all’apparato di console da cui Swan filtra la sua voce deturpata. È qui che assistiamo a virtuosismi di regia che hanno del portentoso.

Rinchiuso in uno studio che pare un postmoderno laboratorio alchemico, Winslow, corroborato da stimolanti e droghe che ingoia come caramelle, comincia a creare distillando dai lambicchi del proprio talento e amore per Phoenix, una musica troppo bella e pura per non essere storpiata fino all’insulto, e a sua insaputa, da Swan… Su un fondale nero si fondono più immagini: un orologio le cui lancette fuggono, una candela rossa che si consuma, giorni di un calendario le cui pagine fuggono a loro volta sfogliate dal passare del tempo, le dita guantate di nero di Winslow sui tasti del piano, le note fluenti di uno spartito in sovrimpressione mentre la pila di fogli del componimento cresce, nonché la figura di Phoenix, assurta a musa, il cui volto candido e sensuoso sembra flottare sullo sfondo nero carico di tutti quei segni che dettagliano la progressione del lavoro alacre di Winslow – il tutto votato a una capacità di lirismo e sintesi fuori dal comune. Da non dimenticare è anche la coreografia dello spettacolo del “Paradiso”, sontuoso nome della “DisneylandGlam e musical-kitsch di Swan, acconcio alla maniera espressionista e caligarista, e che dà un’atmosfera sinistra allo spettacolo con incursioni grandguignolesche nel gotico più ingenuamente posticcio.

Swan stesso è figlio dell’inganno, sceso a patti con Satana per rimanere giovane tramite un contratto mai così simile ad uno discografico, e costretto come un novello Dorian Gray a guardare, non un quadro che invecchia al suo posto, ma la sua versione neoterica: la pellicola di un nastro video che, dice il demonio in persona (nel film l’immagine di Swan stesso allo specchio che prende vita autonoma), se andrà distrutto segnerà la sua fine.

Winslow è vittima dei sulfurei raggiri di Swan, ma Swan lo è, a suo modo, della propria immagine: non tanto quella che si deteriora nel video, ma quella che ha costruito e a cui non sa rinunciare, per un pubblico che lo cannibalizza svuotandolo da ogni traccia d’umano. Egli è ingannatore, manigoldo, plagiatore e persino assassino che giunge all’arte “dannata” della sublimazione dell’atto delittuoso stesso: per il suo Tempio del Rock organizza con freddezza un omicidio in diretta. Significativamente nel finale, mentre muore deturpato e sfigurato, il pubblico lo tiene a spalla come una rockstar: la star di ciò che fa sensazione e spettacolo mischiando finzione e realtà al punto tale da finire vittima prima di un infingimento mai così reale, e poi di un reale mai così finto.

Winslow, invece, come un eroe romantico, muore per amore: la sua morte è letteralmente la vita di Phoenix, il suo sacrificio è l’ultimo atto di un amore oblativo e sublimato, mai consumato eppure potente e puro.

Splendida la colonna sonora di Paul Williams – anche interprete di Swan – che spazia dalle ballate pop al rock duro, e conferisce alla pellicola ulteriore dinamismo e intensità.

Per concludere: ciò che stupisce in questo film è qualcosa che travalica quasi la pagina di cinema che scrive, qualcosa di trascinante, eccedente le sue singole parti e che disegna il disegno di un artista delle immagini, e della loro orditura, che inscena l’improbabile come verosimile e l’inverosimile come chiave di un reale contaminato dall’artefazione e dall’apparire in luogo dell’essere… Winslow non è il solo fantasma che infesta la pellicola.

Passando al secondo film in esame ("Carrie", 1976, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, quando ancora non era divenuta una frusta consuetudine ispirarsi alla sua penna per sfornare film) possiamo da subito affermare che si tratta di una pellicola radicalmente pessimistica, in cui la psicologia dei personaggi è funzionale a delineare un contesto di brutale e gratuita cattiveria, che si direbbe oggi “bullista”, nel mondo adolescenziale della scuola di una tranquilla cittadina americana; nonché la rappresentazione della famiglia come luogo degli orrori: veicolo di vessazione e imposizione di una morale distorta, castrante, perversamente dogmatica, e alimentata da un fideismo isterico. La messa in scena del dramma della giovane protagonista passa per un mondo sotterraneo di ombre e scarsità di luce, ella è prigioniera di una casacarceraria”, dove vigono regole conventuali, e di una madre psicotica avviticchiata al proprio delirante culto religioso, che sembra essere la caricatura stessa di una società puritana e repressiva, censoria e punitrice.

Carrie è sul limine di un’età in cui l’identità, sessuale e non, va a definirsi e porta con sé turbamento e cambiamenti radicali, ma non sa niente del fisiologico passaggio da ragazzina a donna che sta compiendo. La scena delle docce, in cui ha per la prima volta il mestruo, è una delle più crudeli che si possano immaginare, ed ella lo vive come un evento fuori da ogni contesto naturale, fino a interpretarlo come figlio della colpa. Grida sopraffatta dal terrore, invoca aiuto tra le sue compagne, nello spogliatoio, ed esse la beffeggiano e ricoprono di assorbenti lanciati con malagrazia.

L’abilità di De Palma sta nel mettere in immagini una storia, a suo modo, di formazione, un racconto venato a tratti da garbata delicatezza e al contempo terribile, che vede Carrie diventare cigno da brutto anatroccolo; fino al finale in cui, ancora una volta, la brutalità e stupidità “giovane” dei suoi coetanei le apparecchia letteralmente un bagno di sangue suino. In fondo la gioventù non porta sempre con sé qualcosa di crudele? Carrie è sola in un mondo che stenta a capire, che abita come uno spettro da emarginata – e come potrebbe essere altrimenti vista la condotta fegatosa, interventista e delirante della madre?

Ma nonostante le punizioni, le vessazioni, i folli imprinting religioso-morali che da lei subisce, prova persino ad amarla, sforzandosi di conciliare la realtà che vive a scuola – tra coetanei ormai svezzati a esperienze più adulte che sarebbero per lei chimeriche –, con quella repressiva e ostativa presso ogni libertà di esprimere liberamente sé, la propria identità e la propria libido, che è costretta a vivere in casa (nel film una sorta di dimora gotica che inghiotte come una nera gola ogni tentativo di Carrie di avere luce e respiro).

La protagonista, però, nasconde un segreto, o meglio una dote, ella ha poteri paranormali e pur non sapendoli controllare (metafora di doti e attitudini che in adolescenza non padroneggiamo ancora a pieno?) è capace di telecinesi. Questo che potrebbe essere un dono straordinario, nel corso claustrofobico e icastico del film, viene vissuto da Carrie come un’altra colpa, qualcosa da nascondere ancora prima di capire e governare.

Ma se una storia di formazione procede solitamente verso un affrancamento e un riscatto del protagonista, la fine di pellicola è qui una carneficina che segna l’esplodere verso l’assoluta mancanza di controllo dei poteri e della rabbia repressa di Carrie. Un finale lustrale, purificatorio e assieme terribile: come se tutti i contrasti interiori, le pressioni subite, e la rabbia rimossa della protagonista, non potessero che deflagrare a quel modo.

Nel finale la tecnica dello split screen è usata con mestiere e virtuosismo, ricorrono primissimi piani sul volto di Carrie e un uso delle luci tale da imprimere una sorta di bicromia rosso e nera da Inferno dantesco.

Se da un lato la società americana è il topico Agone in cui si esprime una forma barbara di vitalismo sfrenato, e una logica binaria perdente/vincente, la famiglia non è da meno e diviene un nido di spine; perché i conflitti sono evidenti: da un lato una tolleranza repressiva che afferisce un generico permissivismo tale da generare una forma di vuoto morale e mancanza di capacità empatica (gli stessi di cui si nutrono i compagni di scuola di Carrie) e dall’altro norme morali retrive che si affacciano con ottusa, incombente e contraddittoria cogenza, con i loro tabù e le loro leggi scritte sull’acqua di un mondo in cui non può che deflagrare la violenza come pulsione liberatrice. Come ben scriveva Wilhelm Trotter, citato dal Marcuse di Eros e civiltà: “… Sembriamo quasi costretti ad accettare la terribile ipotesi secondo la quale nella struttura e nella sostanza stessa di ogni sforzo umano socialmente costruttivo, è incorporato un principio di morte; che non c’è impulso progressivo che non finisca con lo stancarsi; che l’intelletto non possa fornire una difesa permanente contro una vigorosa barbarie”.

Da segnalare l’interpretazione intensa, potente e suggestivamente angosciosa di una Sissy Spacek perfettamente calata nel ruolo di Carrie.

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