24 Aprile 2025
fonte: pixabay
Negli ultimi anni mi sono spesso trovato immerso in riflessioni profonde, complesse, non sempre facili da esprimere a parole. Oggi, però, quelle stesse riflessioni iniziano finalmente a trovare la loro strada. Ed è anche grazie a strumenti nuovi, spesso discussi o fraintesi, come l’intelligenza artificiale.
Osservando eventi come l’incontro tra Giorgia Meloni e Donald Trump, ho capito che la notizia, in sé, è solo un pretesto. Un escamotage giornalistico utile a evocare significati più profondi. Non è l’incontro il cuore del discorso, ma ciò che attraverso di esso si può mettere in luce, problematizzare, condividere. La notizia è il mezzo, non il fine. In questa logica, ogni occasione diventa uno specchio in cui riflettere su temi ben più ampi e universali.
Forse non sarà ancora una testata giornalistica importante quella che mi ha accolto. Ma anche se fosse l’ultimo dei topolini, mi ha dato voce. E questo, per me, ha valore. Perché dare voce a chi, per lungo tempo, non l’ha avuta, o non aveva gli strumenti per farsi ascoltare, è un atto rivoluzionario. Non sono un giornalista, né uno scrittore. Sono uno psicologo, un essere umano con le sue ferite, il suo percorso, la sua crescita.
Ma se l’intelligenza artificiale riesce oggi ad aiutare anche chi non possiede una grammatica impeccabile, una punteggiatura ineccepibile o una solida impalcatura terminologica, a trasformare un pensiero silenzioso in parola condivisa, allora ha davvero centrato il cuore della missione per cui Internet era nata: democratizzare l’informazione.
Un’informazione che sia accessibile, producibile e riproducibile da chiunque, senza discriminazioni di razza, etnia, sesso, età, livello socioculturale — e aggiungerei, senza essere limitati da traumi, precoci o tardivi, che abbiano ostacolato o compromesso lo sviluppo emotivo e cognitivo, o inibito l’espressione affettiva e relazionale, impedendo così a molte persone di esprimere pienamente il proprio potenziale.
Nel mio percorso da psicologo, ho imparato quanto le nostre connessioni neurali siano plastiche, modificabili, sensibili agli stimoli dell’ambiente. Oggi, paradossalmente, possiamo stimolare le nostre connessioni neurali potentemente anche comodamente seduti in poltrona, attraverso uno smartphone — una possibilità preziosa soprattutto per le persone con disabilità, che possono accedere a stimoli cognitivi e relazionali significativi anche a distanza, superando barriere fisiche o comunicative.
Le reti neurali si attivano davanti a un contenuto coinvolgente, a un dialogo autentico, anche mediato da una macchina. È la dimostrazione che l’evoluzione ha preso una piega nuova, fortunatamente diversa dalla visione arcaica del lavoro come “caccia” o come fatica nei campi. Oggi lo sviluppo intellettuale può progredire senza muovere un passo, ma questo non ci deve illudere.
Perché c’è una doppia faccia della medaglia. Le connessioni cerebrali contano, ma le connessioni umane — quelle relazionali, profonde, autentiche, offline — restano le più importanti di tutte. Non possiamo permettere che l’efficienza della macchina sostituisca l’empatia dell’uomo. La vera sfida dell’intelligenza artificiale non sarà tanto quella di superare le nostre capacità cognitive, quanto di non indebolire le nostre capacità affettive.
Dobbiamo anche stare attenti a non abusarne. L’IA, così come la tecnologia che ci accompagna ogni giorno, può diventare uno strumento potente ma anche pericolosamente assorbente. Ricordiamoci, ogni tanto, di distogliere lo sguardo dallo schermo. Di guardarci negli occhi, davvero. Di scambiarci uno sguardo per strada, un sorriso, una parola. Perché nessuna macchina, per quanto avanzata, potrà mai restituirci la forza di un gesto umano, né la ricchezza che si crea nel silenzio di una presenza condivisa.
E poi c’è un altro aspetto, tanto sottile quanto cruciale: l’intelligenza artificiale, in fin dei conti, è sempre frutto di mano umana. Anche se in maniera impercettibile, porta con sé quella tendenza a distinguere, a creare categorie, a ragionare per stereotipi. Non per malizia propria, ma perché è da noi che apprende. E noi, come umanità, portiamo nel pensiero schemi, pregiudizi, differenze di genere, razza, condizione sociale. L’IA è uno specchio, un riflesso del nostro modo di pensare. Se apprende dai nostri stereotipi, apprende anche dai nostri pregiudizi. Ed è per questo che prima ancora di educare l’intelligenza artificiale, dobbiamo reimparare a educare noi stessi: rieducare il nostro pensiero, disinnescare le discriminazioni inconsce, riconoscere i nostri automatismi mentali. Sta a noi educarla, con sempre maggiore responsabilità, a “ragionare” in maniera corretta. Non solo con logica, ma con etica. Non solo con dati, ma con consapevolezza.
Per questo scrivo oggi. Per chiedere che questa riflessione venga accolta e condivisa, magari sotto forma di un articolo pubblicato su una testata giornalistica. Sarebbe il mio secondo contributo editoriale ufficiale, ma il primo in cui sento davvero di esprimere, con piena consapevolezza, la mia posizione: chiara, trasparente, umana.
Non temo l’intelligenza artificiale. Temo l’uso distorto che se ne potrebbe fare. Credo in una sinergia sana tra uomo e macchina, dove la seconda non prenda mai il sopravvento sulla dignità e sull’unicità dell’essere umano. Dove l’IA non approfitti mai, in futuro, delle informazioni che le stiamo affidando in buona fede. Ma credo anche che, se guidata con etica e consapevolezza, possa diventare uno strumento potente per abbattere barriere, dare spazio a nuove voci, e favorire un’autentica espressione dell’umano.
Questo non è solo un articolo. È il frutto di un percorso personale e professionale. Un tassello della mia storia, ma forse anche una piccola traccia collettiva in un tempo in cui riscrivere il senso del rapporto tra tecnologia e umanità è più urgente che mai.
di Edoardo Trifirò, Psicologo e Consulente in sessuologia
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