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Turchia, potenza militare emergente: tra droni e sottomarini nucleari, l’Europa rischia la dipendenza strategica da Ankara

Nel cuore del Mediterraneo orientale, la Turchia si è ritagliata un ruolo da protagonista in un settore che per lungo tempo aveva rappresentato il suo tallone d’Achille: la difes

10 Settembre 2025

erdogan turchia

Nel cuore del Mediterraneo orientale, la Turchia si è ritagliata un ruolo da protagonista in un settore che per lungo tempo aveva rappresentato il suo tallone d’Achille: la difesa. In appena due decenni, Ankara ha ridotto la propria dipendenza dall’importazione di armamenti dall’80% a meno del 20%, trasformando un Paese consumatore in un hub tecnologico esportatore. I numeri parlano chiaro: nel 2024 le esportazioni di prodotti della difesa turca hanno toccato quota 7,1 miliardi di dollari, con un aumento del 128% solo nel mese di luglio.

Un successo che poggia su un’impalcatura robusta fatta di investimenti statali, una rete industriale in rapida espansione, manodopera giovane e qualificata, ma soprattutto su una visione strategica di lungo periodo. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha definito il comparto “motivo di orgoglio nazionale”, e non ha torto. Oggi la Turchia produce in casa droni, radar, missili, sistemi di guerra elettronica e, in prospettiva, anche sottomarini a propulsione nucleare.

Il simbolo di questa ascesa è Teknofest, festival dell’innovazione che nell’edizione 2025 ha avuto luogo nei cantieri navali di Istanbul. È qui che Ankara ha mostrato al mondo i muscoli della propria industria bellica: dai droni TB2 di Baykar Technologies, ora in joint venture con l’italiana Leonardo, al caccia di quinta generazione Kaan, fino allo Steel Dome, il sistema di difesa aerea multistrato interamente progettato e costruito da aziende nazionali come Aselsan e Roketsan.

Ed è proprio da quest’ultima che arriva la novità più significativa: un piano per dotarsi, entro un decennio, di sottomarini a propulsione nucleare. Un progetto che – se realizzato – collocherebbe la Turchia tra le pochissime potenze mondiali in grado di operare in questo segmento strategico. Non sorprende, quindi, che Atene guardi con crescente preoccupazione al riarmo turco, mentre nel Mediterraneo cambia radicalmente l’equilibrio navale.

Tuttavia, il tema centrale non è solo la crescita di Ankara, ma il rapporto ambivalente con l’Europa. La Turchia non è membro dell’UE, è candidata all’adesione da decenni, ma al tempo stesso è il secondo esercito della NATO in Europa, dopo l’Ucraina. E ora, grazie ai programmi comunitari come SAFE e ReArm Europe, rischia di diventare una pedina imprescindibile nelle catene di approvvigionamento militare dell’Unione.

Paradossalmente, mentre Bruxelles insiste sulla necessità di una difesa comune autonoma, una parte consistente delle forniture strategiche viene ora garantita da un Paese la cui deriva autoritaria è sotto gli occhi di tutti. Dall’arresto del sindaco di Istanbul Imamoglu alla repressione del dissenso interno, il regime di Erdoğan si è allontanato dagli standard democratici richiesti per l’ingresso nell’UE. Eppure, proprio sul fronte della difesa, i ponti non solo non si spezzano, ma si moltiplicano.

L’accordo tra Leonardo e Baykar per la produzione congiunta di droni in Italia è solo il più recente esempio di questa ambiguità. Formalmente nato per rafforzare la capacità industriale europea in un settore strategico, l’intesa potrebbe aprire la porta a una crescente influenza turca sul comparto tecnologico continentale. I droni sviluppati saranno impiegati non solo dalle forze italiane, ma potenzialmente venduti a clienti europei e NATO. La neonata joint venture diventa così una piattaforma d’ingresso per Ankara nel mercato della difesa europeo.

Sul piano industriale, l’accordo ha già dato i suoi frutti: le azioni di Leonardo sono aumentate del 57% in un solo mese. Ma questa euforia finanziaria cela una questione politica delicata: quanto può permettersi l’Europa di appaltare la propria sicurezza a partner che non condividono pienamente i suoi valori fondamentali?

Come ha osservato l’eurodeputato Nacho Sánchez Amor, relatore UE per la Turchia, “la cooperazione militare non significa adesione automatica”. Eppure, è innegabile che ogni euro speso congiuntamente a un Paese terzo rafforza la sua posizione negoziale. Se Ankara diventa centrale per la sicurezza europea, le pressioni diplomatiche su diritti umani e libertà fondamentali perdono efficacia.

Il rischio è evidente: la realpolitik impone di allearsi con chi può offrire capacità industriali e militari, ma nel farlo si scivola verso una dipendenza che mina l’autonomia strategica tanto invocata da Bruxelles. La stessa Unione Europea che cerca di emanciparsi dalla tutela statunitense si trova ora legata mani e piedi a un attore geopolitico autonomo, spesso ambiguo e imprevedibile.

Sullo sfondo, resta la questione più ampia: in un contesto internazionale dove l’asse euroatlantico vacilla, e dove il riarmo tedesco e francese accelera senza una vera integrazione continentale, la frammentazione delle iniziative rischia di alimentare una corsa agli armamenti senza direzione politica comune.

Il coinvolgimento della Turchia – potente ma non democratica, industrialmente dinamica ma politicamente instabile – può rivelarsi un boomerang. Ankara gioca su più tavoli, con relazioni ambigue con Mosca e un’agenda regionale autonoma. Se oggi l’Europa si affida alle sue tecnologie, domani potrebbe trovarsi ostaggio delle sue scelte strategiche.

La lezione da trarre è semplice: in geopolitica, la potenza industriale non può mai sostituire la chiarezza politica. E senza una visione comune, l’Europa rischia di armarsi contro le minacce esterne con strumenti costruiti da chi potrebbe un giorno diventare – se non un nemico – almeno un interlocutore scomodo.

Di Riccardo Renzi

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