16 Luglio 2025
Fonte: LaPresse
Un appello per impedire al maestro Valerij Gergiev di esibirsi alla Reggia di Caserta a fine mese. La sua colpa, com’è noto, è essere amico di Putin, come ha fatto notare con dovizia di particolari Julija Navalnaja, la vedova di Aleksej Navalny l’attivista russo e oppositore del Cremlino morto in carcere.
L’amicizia di Gergiev con Putin, evidentemente, dev’essere una colpa che supera i meriti di direttore d’orchestra. La verità è che Gergiev è un amico stretto dello Zar pertanto - mi sembra lapalissiano - ne condivide le azioni, ma il suo nome in giro per il mondo è noto per essere una delle bacchette più prestigiose al mondo, uno dei massimi conoscitori degli spartiti di Cajkovskij. Le polemiche di queste ore sono davvero prive di senso ma in un paese che si spacca sui concerti di Al Bano e Pupo o sulle esibizioni in terra russa era normale che la politica ci mettesse becco.
Tra le voci in dissenso spicca il solito Calenda, il quale - essendo stato in Ucraina per poi poterlo raccontare con la spocchia del pariolino che se fa un’ora di volontariato poi ha già capito tutto delle marginalità - si sente investito di una missione particolare. Ora non tutti ricordano che Calenda è stato ministro dello Sviluppo economico dal 2014 al 2018 nei governi Renzi e Gentiloni; durante questo periodo portò le imprese italiane in Russia per promuovere business. Carlo Calenda forse non era al corrente che nel 2007 alla conferenza di Monaco Putin disse senza giri di parole che il suo intento politico era di riportare la Russia tra i grandi del mondo (l’anno precedente c’era già stata la prima crisi del gas in Ucraina), così come non era al corrente, il tenero Carlo, che nel 2008 ci fu la guerra in Georgia, nel 2014 il referendum in Crimea con tanto di invasione delle truppe russe nel Donbass. Insomma Putin stava già avvertendo il mondo, soprattutto i paesi Nato, che non accettava movimenti militari ai suoi confini. Calenda - sia chiaro - non era solo: la Germania mandava a Mosca il suo ex Cancelliere e l’Europa chiudeva contratti energetici a lungo termine.
Poi però Calenda è cambiato (Putin no, ha messo in pratica quello che diceva) e quindi ora Gergiev non deve venire in Italia a fare propaganda tra le righe del pentagramma. Calenda dice di essere un uomo di impresa; bene, allora a maggior ragione vale la pena ricordare che l’Italia nel 2024 ha importato grandi quantitativi di gas liquido dalla Russia così come ha fatto l’Europa nel suo insieme, che ha aumentato le importazioni energetiche da Mosca rispetto al 2023 in barba agli impregni di ridurli fino ad azzerarle. E il 2025 al momento segna un ulteriore aumento.
Non solo. L’altro giorno Paolo Baroni sulla Stampa ha scritto che “nonostante l'embargo, a inizio anno erano ancora quasi 2.300 le multinazionali presenti sul territorio russo che, complice il crollo delle importazioni dal resto del mondo, in molti casi hanno visto crescere in maniera significativa il loro giro di affari e, quindi, pure le tasse versate al Cremlino. Secondo le stime del Kse Institute, ovvero la Scuola di Economia dell'Università di Kiev, un soggetto certamente non neutrale in questa vicenda ma certamente molto attento e interessato, nel solo 2023 le imprese straniere presenti in Russia hanno versato a Putin ben 21,6 miliardi di dollari che salgono a 41,6 considerando pure il 2022, cifra che equivale a poco meno di un terzo del bilancio militare stimato della Russia per il 2025, «il che – sottolinea lo studio del Ksde - evidenzia l'importante contributo finanziario che queste aziende straniere continuano a dare all'economia russa»". La fonte è il quotidiano La Stampa non la Pravda.
Si tratta - sempre secondo il rapporto citato da Paolo Baroni - di 808 società americane, 463 tedesche, 294 inglesi, 271 cinesi, 185 francesi, 181 giapponesi, 170 svizzere e - udite udite - 144 imprese italiane attive per lo più nel campo dei beni di largo consumo, del credito, dell'elettronica, dell'energia e del petrolio e dell'Information technology. Qualche nome? Eccoli: i maggiori contributori del bilancio russo sono i colossi dei beni di consumo Mars, Nestlé, e Procter & Gamble, Philip Morris , Japan Tobacco International, PepsiCo , Mondelez e Coca-Cola. E poi ci sono le banche: Citi o Raffeisen. C’è Big Pharma: Novartis, Astra Zeneca e la francese Sanofi.
Ovviamente - caro Calenda e tutti quelli che negano a Gergiev di dirigere alla Reggia di Caserta - ci sono anche aziende italiane, pure di grido. Dopo l'uscita di Eni, Enel, Leonardo, Intesa Sanpaolo, Autogrill, Buzzi Unicem, Luxottica, Prada, in terra russa troviamo Unicredit (operativa nonostante l’annuncio di ritirarsi, come pure hanno detto di fare Pirelli, Tenaris, Lavazza e Menarini) e marchi come Barilla, Ferrero, De Cecco e Parmalat; ci sono i gruppi Marcegaglia, Mapei, De Longhi, Smeg, Campari, Recordati, Safilo, Benetton e Calzedonia. “In tutto nel 2023 le società italiane hanno versato a Putin oltre 265 milioni di euro” riporta la Stampa. Ora, ditemi se il problema è il direttore d’orchestra amico di Putin.
di Gianluigi Paragone
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