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Dazi e debito pubblico, il dietrofront di Trump è dovuto più al segnale politico sui titoli di Stato che a un problema finanziario

I titoli in mano ad altri Paesi non rappresentano una cifra molto alta, ma il messaggio è arrivato chiaro dal mercato e soprattutto dalla banca centrale

11 Aprile 2025

Donald Trump

Donald Trump (fonte foto Lapresse)

Alla fine, Donald Trump è stato costretto a sospendere i dazi. Ci sono state pressioni da più parti: con il crollo dei mercati, la popolazione stava perdendo molti soldi dai fondi pensione, mentre i big della finanza erano convinti che la recessione fosse già in atto. Così hanno parlato con l’amministrazione e con i senatori repubblicani in grado di mandare messaggi chiari alla Casa Bianca. Si parla molto anche della crisi del mercato delle obbligazioni. Il rendimento dei titoli pubblici americani era aumentato rapidamente negli ultimi giorni, mostrando grande nervosismo in merito alla solidità di un asset che da decenni viene considerato un bene rifugio, un simbolo di stabilità per eccellenza. La conseguenza potrebbe essere un aumento dei costi per lo Stato americano, qualcosa di simile al famoso problema dello "spread" in Italia: il debito americano diventa meno affidabile e quindi costa di più finanziarlo.

D’altronde, sono settimane che si parla di una sorta di strategia che potrebbero attuare i Paesi che detengono molti titoli americani, compresi quelli europei: smettere di acquistare il debito USA per mettere in difficoltà Washington, utilizzando le obbligazioni come un’arma. Questa idea si basa in parte su un equivoco: il più grande detentore estero del debito americano è il Giappone, con circa il 3 per cento del totale. La Cina è poco sopra il 2 per cento, non proprio in una posizione da poter ricattare l’America, come raccontano molti giornalisti da anni. I Paesi europei, invece, messi insieme arrivano intorno al 5 per cento. Questo dato comprende però il Regno Unito e la Svizzera, che sono in cima alla classifica. Complessivamente, tra i grandi Paesi asiatici e quelli europei si supera il 10 per cento. Una cifra significativa, ma certamente non sufficiente per mettere in ginocchio l’America con una guerra finanziaria. Il motivo è che, se lo ritiene necessario, la banca centrale USA, la Federal Reserve, può sostenere il mercato iniettando liquidità direttamente nel mercato obbligazionario americano. Lo ha fatto più volte negli ultimi anni, in particolare durante la crisi del 2008 e negli anni del Covid. Infatti, tra la Fed e altri enti pubblici americani, si arriva a detenere una fetta importante del debito americano, che in alcuni momenti ha sfiorato il 50 per cento.

Eppure, l’aumento dei tassi ha avuto un ruolo nel costringere Trump a fare marcia indietro. Ha evidenziato una perdita di credibilità da parte degli Stati Uniti, inviando un segnale politico chiaro. Analizzando bene la situazione, si capisce che questo segnale non riguarda solo i detentori del debito nel mercato privato, siano essi americani o stranieri. Proviene anche dalla banca centrale e dai grandi istituti della finanza statunitense: nessun intervento coordinato per salvare il mercato dei titoli pubblici, come invece era accaduto in altri momenti. Al contrario, la volontà è stata quella di lasciar correre, facendo arrivare un messaggio inequivocabile al Tycoon: stai mettendo a rischio la solidità del Paese, è meglio fare un passo indietro. L’incertezza non è finita, ma ora Trump dovrà muoversi con maggiore cautela. Vuole costringere tutti a trattare con lui, ma non può farlo a costo di danneggiare gli stessi americani. Resta da vedere se l’amministrazione porterà ora avanti in modo serio la strada della politica industriale intrapresa negli ultimi anni, per continuare a ricostruire la base produttiva americana.

Di Andrew Spannaus

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