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Biden aumenta i dazi sui prodotti cinesi e Trump lo rincorre, accelera il nuovo paradigma protezionistico

Nel mirino i veicoli elettrici oltre ai prodotti tecnologici e di trasporto. I due presidenti fanno a gara per contrastare le pratiche commerciali di Pechino

15 Maggio 2024

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Joe Biden Fonte: Imagoeconomica

La guerra dei dazi non è finita. Anzi, i prodotti cinesi saranno soggetti a nuove, pesanti imposizioni come appena annunciato dal presidente americano Joe Biden. Si parte dai veicoli elettrici, dove i dazi aumenteranno dal 25 al 100 per cento quest’anno; poi aumenteranno ulteriormente su acciaio e alluminio, dal 7,5 al 24%, e anche sulle gru da trasporto e sulle celle fotovoltaiche. Dal 2026 si passerà alle batterie e alla grafite.

L’annuncio viene a conclusione di una lunga inchiesta condotta dall’amministrazione americana sulle pratiche economiche e commerciali della Cina, rea di distorcere il mercato con forti sussidi pubblici e pratiche di dumping che minano i mercati esteri nel suo mirino. Non è una novità che Pechino agisca in questo modo, ma ci sono voluti anni perché gli Stati Uniti decidessero di rispondere in modo incisivo, per vari motivi.

Ci sono alcuni aspetti pratici e altri politico-ideologici. Sul primo fronte, si temevano le ritorsioni da parte di Pechino alle misure americane, dato il grande interscambio commerciale. È diventato presto evidente, però, che la Cina ha un grande interesse a mantenere i flussi economici. Risponde sì alle misure occidentali in vari casi, ma ormai è diventata il campione del libero mercato, mentre sfrutta il fatto di avere un’economia con ancora molte restrizioni e un forte intervento pubblico.

La squadra di Biden riconosce anche che ci vuole tempo perché l’industria americana si adatti alla nuova situazione: non è utile penalizzare i prodotti esteri se non esiste la produzione domestica. Anzi, si tende a spingere l’inflazione in quanto manca la capacità di rapida sostituzione. Serve politica industriale per incoraggiare gli investimenti e la riorganizzazione delle filiere, processo in atto ma tutt’altro che immediato.

A livello politico, gli Stati Uniti hanno ormai abbracciato la svolta “post-globale”, come ho definito il cambiamento anti-globalizzazione in un mio libro del 2020. Se per decenni si promuoveva il mercato con restrizioni minime e l’assenza dell’intervento pubblico, ora è chiaro che l’efficienza prodotta da un tale sistema è più teorica che reale, mentre le conseguenze in termini politici e sociali sono impossibili da ignorare.

La perdita di decine di migliaia di fabbriche ha fomentato la rivolta “populista” degli elettori; la pandemia ha messo a nudo le difficoltà dei paesi che non producono i prodotti essenziali per la sopravvivenza; e la competizione geopolitica rende chiare le conseguenze di lasciare l’innovazione tecnologica in mano a paesi che hanno una concezione diversa dei diritti e della società.

Così Joe Biden non solo ha mantenuto i dazi imposti da Donald Trump, ma li ha aumentati. E sta sviluppando una strategia complessiva per rafforzare l’economia americana in termini di posti di lavoro ben pagati, tecnologia avanzata e nuovi programmi sociali. Rimangono molti punti di debolezza, ma ormai la strada è stata imboccata: i liberisti non hanno lo stesso peso di prima, dovendosi piegare alle esigenze politiche e strategiche della nuova competizione globale.

È stato proprio Trump a dare inizio al cambiamento, con una serie di misure approssimative ma importanti durante il suo tempo alla Casa Bianca. Quest’anno ha sbaragliato (di nuovo) i repubblicani della vecchia guardia mercatista, ma ora si trova in svantaggio di fronte a un presidente democratico che accelera la svolta interventista. Infatti, la risposta di Trump è stata immediata: ha promesso di andare ancora oltre, con un dazio del 200% sui veicoli cinesi prodotti in Messico.

Questa affermazione dimostra un po’ di confusione da parte dell’ex presidente, in quanto il Messico ha uno status speciale a causa degli accordi commerciali con gli USA (firmati da lui stesso), ma indica comunque il nuovo clima che regna a Washington. Il paradigma della delocalizzazione alla ricerca di profitti finanziari per le multinazionali deve lasciare il passo alle considerazioni sulla solidità economica e sulla sicurezza nazionale. Siamo ancora agli inizi, ma difficilmente si tornerà al passato.

di Andrew Spannaus

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