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La miccia che ha fatto esplodere gli scontri nelle università americane: le pressioni dei politici sugli amministratori

C’è chi non solo vuole fermare le critiche ad Israele, ma anche sfruttare il senso di insicurezza per motivi elettorali

04 Maggio 2024

Proteste università Usa pro-Gaza, oltre 2mila arresti da inizio aprile, agente spara durante sgombero campus Columbia

Fonte: X, @AdnKronos

Lo scontro nelle università americane sulla guerra a Gaza si sta aggravando. Gli studenti mettono in atto occupazioni di edifici e di spazi pubblici, mentre gli amministratori degli atenei chiamano la polizia ad intervenire. Le esagerazioni sono evidenti da entrambe le parti, e si alza la probabilità di un incidente serio, richiamando alla mente le tempeste di anni passati, come durante la guerra del Vietnam oltre 50 anni fa.

La speranza è che la polizia eviti di rispondere alle provocazioni, e che sia possibile isolare eventuali agenti provocatori, sempre presenti in situazioni del genere. Ma non si tratta di un tema di poco conto, e quindi gli studenti andranno avanti a fare sentire la loro voce, convinti che devono galvanizzare la resistenza contro un genocidio messo in atto dal governo israeliano.

Il vero problema è che alcuni fomentano e approfittano di scontri del genere. In questo caso non è difficile capire chi: i politici che hanno esercitato pressioni sugli amministratori delle università per punire gli studenti che criticano Israele.

Il primo momento chiave risale al dicembre dell'anno scorso, quando le presidenti di Harvard, MIT e dell'Università della Pennsylvania erano chiamate a testimoniare davanti al Congresso. In quella sede la deputata repubblicana Elise Stefanik ha voluto equiparare il sostegno politico per l'intifada – legittimo in base al diritto di espressione negli Stati Uniti – a una minaccia di genocidio generale, come ad esempio contro gli studenti ebrei nelle stesse università. Le tre responsabili hanno fatto fatica a rispondere alle domande aggressive, e due di loro furono costrette a dimettersi dopo poche settimane.

Il secondo episodio, del quale ho scritto due settimane fa, ha visto la presidente della Columbia University, Minouche Shafik, rassicurare i deputati che avrebbe adottato una linea più dura nei confronti delle proteste. Pochi giorni dopo ha dato seguito alle promesse, chiedendo alla polizia di New York di sgomberare la protesta sul prato dell'università.

Da lì, naturalmente, l'atmosfera si è surriscaldata, con azioni più intense anche negli altri atenei americani. È un copione ben conosciuto: quando si risponde con durezza, si provoca una reazione anche dall'altra parte. A questo punto non importa più di chi sia la colpa, chi ha innescato il vortice negativo in cui si trovano gli studenti attivisti e gli amministratori che si sentono in obbligo di fermarli.

Per i politici che hanno posto l'attenzione sul tema, è tutto di guadagnato. Ora la protesta anti-Israele viene vista come espressione di giovani privilegiati delle migliori università, "woke" su temi progressisti ma tacciati di antisemitismo da parte di chi sostiene la guerra a Gaza.

Perché perseguire questa strategia? Non solo per evitare un ulteriore rafforzamento delle critiche ad Israele nell'opinione pubblica, ma anche per diffondere un senso di insicurezza che non può che fare male al presidente in carica in mezzo alla campagna elettorale. L'obiettivo non è facilitare un dibattito pubblico serio su come porre fine alla guerra, ma radicalizzare lo scontro per motivi politici.

di Andrew Spannaus

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