13 Aprile 2024
Per gli economisti liberisti, è ora di mettere il cuore in pace. La nuova fase del protezionismo e del maggior intervento pubblico si sta consolidando negli Stati Uniti, in risposta ad una serie di problemi creati dalle politiche della globalizzazione nel corso degli ultimi decenni. Quella che all'inizio poteva essere bollata come una risposta "populista", invocata da personaggi come Donald Trump che parlavano alla pancia degli elettori senza considerare le conseguenze negative a livello macroeconomico, ormai è diventata una nuova impostazione delle istituzioni americane.
Joe Biden non solo ha mantenuto i dazi imposti alla Cina da Donald Trump, ma ha aggiunto una serie di altre azioni governative che rappresentano l'inizio di una nuova politica industriale, in barba a tutte le teorie liberomercatiste che mirano a ridurre al massimo l'intervento dello stato. Si va dalla grande spesa sociale per rispondere alla pandemia, con soldi distribuiti direttamente a cittadini e imprese, alle iniziative legislative per promuovere la costruzione di numerose nuove fabbriche, soprattutto nei settori tecnologici dove l'Occidente mira a mantenere il suo vantaggio a livello globale. Il tutto calibrato proprio per aiutare le zone che più hanno sofferto lo spostamento della produzione verso i paesi dove il lavoro costa poco.
Ci sono tre ordini di motivi per questo cambiamento. Il primo riguarda il malcontento espresso dagli elettori che sono stati lasciati indietro dalle politiche della globalizzazione, portando alla perdita di milioni di posti di lavoro nella manifattura, e all'aumento della precarietà in molti settori. Per anni è stato detto che queste persone dovevano reinventarsi e adattarsi alla nuova economia, ma poi una serie di personaggi politici, a destra come a sinistra, hanno provocato un cambiamento profondo del dibattito, chiedendo una svolta da parte del legislatore piuttosto che dover accettare gli effetti della stagnazione e della disuguaglianza.
Il secondo choc è avvenuto con la pandemia del Covid-19. Purtroppo ci è voluta una crisi profonda per far capire ai governanti che quando non si producono i prodotti essenziali per la sopravvivenza, a partire dai dispositivi medici, si rischia di rimanere a secco quando ci sono interruzioni al commercio mondiale. I paesi ricchi hanno dovuto fare i conti con le proprie politiche di delocalizzazione alla ricerca dei bassi costi. Di colpo il sistema frammentato del commercio mondiale è sembrato molto meno efficiente di quanto si credeva, e la nuova parola d'ordine è diventata "resilienza", cioè la capacità di resistere di fronte agli eventi negativi.
Il terzo motivo è rappresentato dalla competizione geopolitica con la Cina. Gli Stati Uniti si preoccupano di avere il controllo sulla produzione di beni che afferiscono alla sicurezza nazionale, con la produzione dislocata in casa o in paesi amici, ma puntano anche a vincere la sfida delle nuove tecnologie, dall'hardware come i semiconduttori, al software per le applicazioni dell'intelligenza artificiale. Sono state prese misure precise per frenare i progressi di Pechino, per esempio bloccando la vendita di certi tipi di chip alle imprese cinesi.
Considerate insieme, queste misure definiscono una nuova direzione della politica economica nell'America che ho definito già qualche anno fa "post-globale". Rimangono tanti problemi, dall'alto costo delle case alle buche nel sistema sanitario, dalla precarietà della cosiddetta gig economy alle divisioni sociali. Tuttavia, una cosa è chiara: nonostante le differenze significative tra i due grandi partiti, gli Stati Uniti hanno scelto di utilizzare gli strumenti pubblici per affrontare e prevenire il proprio declino, interno e anche nella sfera internazionale.
Di Andrew Spannaus
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