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Genova, inchiesta sui microcellulari nel carcere di Marassi, tra gli indagati anche boss del clan Spada

Monitorati 150 dispositivi clandestini e 115 sim. I detenuti li usavano per parlare con parenti, amici e altri reclusi. A far entrare gli smartphone erano i familiari

27 Novembre 2025

Genova, inchiesta sui microcellulari nel carcere di Marassi, tra gli indagati anche boss del clan Spada
Indagine della Direzione investigativa antimafia di Genova sul traffico di microcellulari introdotti nel carcere di Marassi.
Le perquisizioni, in dodici istituti penitenziari diversi (i detenuti nel tempo erano stati trasferiti o scarcerati), hanno interessato anche affiliati delle cosche ndranghetiste come Morabito di Africo (Reggio Calabria), Grande Aracri di Cutro (Crotone), Molè di Gioia Tauro e Gallico-Frisina di Palmi. Solo in due casi sono stati trovati apparecchi telefonici. L’operazione, coordinata dal procuratore aggiunto Federico Manotti della Direzione distrettuale antimafia, era partita nel 2021 quando gli investigatori intercettarono una conversazione tra un soggetto esterno e un detenuto di Marassi.
Da lì è emerso un sistema consolidato: i microtelefonini – minuscoli apparecchi facilmente occultabili nel corpo o nelle celle – venivano consegnati dai familiari durante i colloqui in parlatorio. Nel corso delle indagini sono stati monitorati oltre 150 numeri di telefono e 115 Sim, molte delle quali acquistate in esercizi compiacenti del centro storico genovese. Dei 31 indagati, gran parte è già libera, dodici risultavano ancora detenuti al momento delle perquisizioni: due in Liguria - a Chiavari e La Spezia -, gli altri a Fossano, Ivrea, Alessandria, Cuneo, Tolmezzo, Parma, San Gimignano, Lanciano, Rossano e Santa Maria Capua Vetere.

Dalla sua cella nel carcere di Marassi, Ottavio Spada, esponente di spicco dell’omonimo clan di Ostia, poteva tranquillamente telefonare alla madre e alla moglie; l’ex sorvegliato speciale Giuseppe Prostamo, figlio di Nazzareno, boss della cosca di San Giovanni Mileto in provincia di Vibo Valentia, invece chiamava i parenti e un picciotto della ’ndrangheta di Brà dalla casa circondariale di Padova. Insieme a loro altri esponenti della malavita organizzata (dodici in tutto) tenevano contatti con il mondo esterno, nonostante dovessero ancora scontare pene per l’appartenenza ad associazioni di stampo mafioso. All’interno delle case circondariali i micro smartphone li portavano i familiari dei reclusi, ma anche gli altri detenuti con degli stratagemmi che permettevano loro di aprire e richiudere pacchi che dovevano consegnare i corrieri (all’oscuro di quello che succedeva). Per questo gli indagati complessivamente sono trentuno, mentre sono dodici quelli sottoposti a perquisizione. I reati contestati - a vario titolo - vanno dall’accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti alla ricettazione, aggravati dall’agevolazione mafiosa, «per aver introdotto o favorito l’uso di telefoni cellulari all’interno di istituti di pena».

Il traffico di cellulari destinato alla malavita partiva proprio da Genova, e più precisamente dal centro storico. È nei negozi di telefonia dei vicoli, quelli gestiti dagli stranieri, che venivano attivate le utenze. Intestate a extracomunitari a cui qualcuno faceva firmare contratti che forse non sapevano neppure leggere, oppure a nominativi inventati di sana pianta. Alias su cui sono andati a sbattere gli inquirenti, altrimenti la lista degli indagati sarebbe stata più lunga. La prima casa circondariale bonificata dalla Dia è stata proprio quella di Marassi, dove chi veniva scarcerato vendeva il cellulare a chi restava. A cifre che oscillavano dai 400 ai 500 euro. Sennò c’erano i parenti. E quando questi non riuscivano a passare i controlli, oppure avevano paura di essere scoperti, ecco che entrava in azione Jonathan Manuel Espirito Onofre, cittadino peruviano di 35 anni. Un soggetto dal curriculum criminale di basso livello, e per questo ospite della sezione di media sicurezza (gli altri invece si trovavano in quella destinata ai boss ad alta sicurezza, ndr). Aveva due pregi che lo facevano benvolere, però: lo spirito d’iniziativa e la possibilità di muoversi da un’ala all’altra del penitenziario in quanto addetto alla manutenzione ordinaria del carcere e soprattutto “spesino”. Ovvero era lui quello che distribuiva la merce comprata dai detenuti. Tra questa nascondeva i mini telefonini e le sim. Una mansione che gli aveva fatto risalire la scala gerarchica all’interno della struttura detentiva. Gli agenti della Direzione investigativa hanno appurato che almeno una ventina delle schede sequestrate durante l’operazione Smartphone erano passate dalle sue mani tra il 2020 e il 2021.

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