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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Sarajevo, la fenice poetessa

Con la tua luce, i tuoi colori, la tua gente raggiante e la tua forza impressionabile mi dimostri che dalle cicatrici si riemerge più di prima e con fermezza, proprio come lo fa una meravigliosa impavida fenice

17 Giugno 2025

Sarajevo, la fenice poetessa

"Il male non voleva mica vederlo, lui voleva vedere solo la cosa bella."

“Ti ritrovo in questa prima notte sarajevita dopo tanti anni. Palate di vita. La mia pelle bianca ha più di cinquantanni di pensieri e azioni. Ti piacerei ancora, Diego? Ti piacerebbero questa pelle molle sotto il mento, queste braccette? Mi ameresti ancora dello stesso amore carnale, della stessa gioia? Un giorno mi hai detto che mi avresti amata anche vecchia, che mi avresti leccata anche decrepita. Me lo hai detto e io ti ho creduto. E poco importa se il tempo non ci ha lasciato sperimentare. Da qualche parte siamo invecchiati insieme, da qualche parte continuiamo a rotolarci e a ridere.’’

"Venuto al mondo", film diretto da Sergio Castellitto e tratto dal romanzo di Margaret Mazzantini, è un dramma intenso che racconta una storia d’amore e di maternità sullo sfondo della guerra in Bosnia.

La protagonista, Gemma, una donna italiana, torna a Sarajevo con il figlio Pietro, dove anni prima aveva vissuto una tormentata storia d’amore con Diego, un fotografo americano. Attraverso flashback, il film ripercorre la loro relazione, segnata dal dolore per l’impossibilità di avere figli e dagli orrori della guerra. Durante il viaggio, Gemma svelerà al figlio segreti legati alla sua nascita e al passato, affrontando verità dolorose.

Il film parla di amore, perdita, maternità, identità e delle ferite profonde lasciate dai conflitti, mescolando vicende personali e tragedia storica.

Al di là del fatto che questo film mi ha fatto battere il cuore come non mai, considerando anche la bravura di un cast fantastico e il picco di romanticismo e di tragedia della storia annessa, la curiosità di conoscere una città così segnata, così piena di storia, a tratti ingiustamente dimenticata, mi ha convinta a far la valigia per un week end di reportage molto più che desiderato.

Alla scoperta della città

Devo ammettere che non avessi aspettative di fronte alla scoperta di questa città così profondamente colpita e che proprio come una fenice è tornata a rinascere, ad emergere dalle ceneri. Ed ecco che prontamente sono stata positivamente colpita: ogni angolo della città è vibrante di storia, di energia e di una nostalgica bellezza, proprio quella che i giapponesi chiamerebbero ‘bellezza dell’imperfezione’, come ben espressa nell’arte secolare del kintsugi (l’arte cioè di riparare vasi o ceramiche rotte ridefinendole con tratti d’oro, scovando il bello e prezioso proprio nelle parti rovinate e crepate). In effetti Sarajevo è una città che fieramente e senza vergogna mostra tutte le sue ferite aperte, le esalta e le trasforma in arte pura: a simboleggiare questa tendenza, è facile incontrare nel cammino le famose “rose di Sarajevo”, ossia simboli commemorativi di colore rosso, che si notano nitidamente sulla pavimentazione in lastricato. In quegli stessi punti sono caduti ed esplosi i colpi di mortaio lanciati durante l’assedio di Sarajevo.

L’amministrazione cittadina ha deciso di non riparare il fondo, ma di utilizzare della resina rossastra per riempire quei solchi, a testimonianza di ciò che ha dovuto sopportare la popolazione della capitale in quei terribili anni, tra il 1992 e il 1995.

Una scelta che mi porta a simpatizzare indirettamente per il coraggio: perché è bello vedere come la sofferenza ed il dolore, quelli veri e profondi, non siano celati o dissimulati, ma vengano decorati, esaltati e anzi fatti risplendere. Perché è solo attraversando le pagine più buie della nostra anima che possiamo risorgere, e questo Sarajevo lo ha incarnato perfettamente.

Sarajevo viene anche definita la "Gerusalemme d’Europa". Primo, perché oggi ci convivono pacificamente i fedeli di quattro religioni: islamica, cristiana cattolica, cristiana ortodossa ed ebraica. Secondo, perché i suoi monumenti antichi (e non solo) sono segnati da questa realtà. Terzo, perché, come Gerusalemme in Israele, porta i segni di tanti conflitti, passati e recenti. Insomma, ecco la tanto nota Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, uno degli Stati in cui si è divisa l’ex Jugoslavia dopo il conflitto durato dal 1991 al 2001.

Di certo, le tracce della storia della città sono tantissime, a cominciare dai 4 anni di assedio durante l’ultima guerra: tutto racconta quel periodo e neppure volendo potreste fare a meno di vederne i segni. Oggi però la capitale bosniaca - circondata da montagne e attraversata dal fiume Miljacka - è risorta, tanto che è tra le più vivaci e con più giovani. L’ideale per trascorrervi un week-end lungo.

Tantissime sono le attrazioni della città:

  • La Baščaršija, il quartiere turco, è affascinante e colorato. Lungo strade lastricate ci sono artigiani, ristoranti, caffè e bazar: un dedalo in cui è delizioso perdersi;
  • Il Mercato di Sarajevo è celebre perché una bomba, durante l’assedio, fece una strage, di cui si celebra la memoria; ora è un allegro e incredibile concentrato dei prodotti agricoli della zona e del temperamento dei bosniaci;
  • La Moschea dell’Imperatore, eredità del dominio ottomano, è dedicata al sovrano Solimani I e risale a metà del Cinquecento. In una città a maggioranza musulmana, accanto alle moschee ci sono molti luoghi sacri per altre religioni. Per esempio, la Cattedrale cattolica, quella ortodossa e la Sinagoga sono affiancate, accanto alla Baščaršija;
  • Poi ecco il Ponte latino, costruito nel XVI secolo, celebre perché qui, il 28 giugno 1914, fu ucciso l’erede al trono di Austria e Ungheria, Francesco Ferdinando d’Asburgo: l’attentato dette il via alla Prima guerra mondiale, come ricorda un vicino museo (uno dei cinque in città).

 

Cosmopolitismo e solidarietà cittadina

A Sarajevo, il cosmopolitismo è parte integrante del tessuto cittadino: non è raro infatti trovarsi al cospetto di una moschea, una sinagoga e una chiesa ortodossa e/o cattolica nel giro di pochi isolati.

Il 1461 è considerato l’anno di fondazione di Sarajevo: in quell’anno Isa-Beg Isaković, primo governatore ottomano in Bosnia, trasformò un gruppo di villaggi in una città e capitale, costruendo edifici fondamentali come una moschea, un mercato coperto, bagni pubblici, un ostello e il Palazzo del Governatore (saray).

A fine ‘800, dopo l’occupazione ottomana, passò invece sotto il controllo dell’Impero Asburgico, prima di diventare teatro dell’attentato del 1914 che scatenò la Prima Guerra Mondiale, e subire il tragico assedio durante la guerra in Bosnia (1992-1996).

Il multiculturalismo idealizzato di Sarajevo è riuscito a sopravvivere alle tragedie che hanno travolto l’Europa, grazie a due elementi della cultura tradizionale cittadina: da un lato, un sistema di identità religiosa che veniva mantenuto all'interno della sfera privata; dall’altro, una solidarietà radicata nel pluralismo politico e nella ricchezza culturale. La città seguiva codici etici, culturali e politici ben definiti che guidavano il comportamento degli abitanti. Per essere considerati davvero “sarajlija”, ossia cittadini di Sarajevo, era necessario rispettare valori concreti e norme etiche proprie della città, come la convivenza (zajednički život) e il buon vicinato (komšiluk).

Quel che colpisce tantissimo è poter incrociare razze, etnie, lingue, religioni diverse ma così ben amalgamate e mescolate le une con le altre, da poter percepire un senso forte di appartenenza, di convivenza serena e di pace. I volti delle persone sembrano serene, sono visi giovani, dai tratti fini e dall’eleganza senza eguali. Mi sorprende riconoscere come siano gioviali e affamati di vita e di felicità: la guerra ha scosso ogni cellula del corpo degli abitanti, volenti o no, respirando anni di crudeltà e di orrore. Ora sanno festeggiare la vita e contemplare l’ospitalità e, proprio a ragione di ciò, mi è capitato durante l’ultima sera di permanenza bosniaca di intrufolarmi come solo io so fare alla cerimonia e ai balli di un matrimonio sarajevita, proprio in una terrazza della città. Le musiche balcaniche sono veramente coinvolgenti e sprigionano una brillante gioia e una voglia di festa non da poco. Impossibile non esserne contagiati.

Sarajevo è un intreccio di volti, colori e lingue diverse. Per le strade si incrociano donne con solo gli occhi scoperti, altre che portano il velo ma vestono con jeans, e persone il cui aspetto potrebbe farle sembrare italiane o russe. Le moschee convivono a pochi passi da chiese cattoliche e ortodosse. I cimiteri bianchi sorgono accanto a bar pieni di vita, dove si ride e si scherza, ma troppe tombe riportano gli anni 1993, 1994, 1995 come data di morte. Nell’aria si mescolano i profumi del kebab e dei ćevapčići. C’è un forte desiderio di riscatto, di lasciarsi alle spalle gli anni duri della guerra, ma anche la determinazione a non dimenticare.

In ogni viuzza l’atmosfera effervescente si condensa ai profumi della cucina locale e dei narghilè.

Si producono ammennicoli e cianfrusaglie di ogni tipo, tessuti di ogni tipo e colore.

Una commerciante mi convince a sorseggiare un succo di melograno sorridendomi e deliziandomi di complimenti piacevoli.

 

Galerija e gli orrori della guerra

Ben altro registro è quello che avverto attraversando le zone più cupe della città.

E’ specialmente la visita a la Galerija, quella che mi tocca in particolare e mi lascia un bel trambusto emotivo (pianto annesso).

Ospitata all’interno di un elegante edificio al lato della cattedrale, la Galerija 11/07/1995 è uno spazio espositivo dall’impatto impressionante, che vuole preservare e mostrare al pubblico internazionale documenti, immagini e reperti recuperati a Srebrenica e dintorni dopo il genocidio del luglio del 1995.

Furono 8372 le persone che morirono quel maledetto giorno, nell’indifferenza della comunità internazionale che, di fatto, voltò le spalle a quelle persone.

Ci sono tutti i loro volti, le loro sofferenze, le cose che hanno lasciato e quelle che gli assassini volevano che sparissero, e che invece, grazie ad un’accurata ricerca, sono tornate alla luce.

Prove inconfutabili di ciò che avvenne, dell’inferno in terra, dell’odio a cui l’uomo troppo spesso si affida, senza remore, senza vergogna.

Durante la guerra del 1992-95, Srebrenica, cittadina situata nella Bosnia orientale, era un’enclave sotto il controllo dell’esercito bosniaco attorniata da città serbe, che ospitava migliaia di musulmani bosniaci. Nel 1993 divenne una zona demilitarizzata sotto la tutela della missione Unprofor delle Nazioni Unite. Tuttavia, nel luglio del 1995 le forze militari serbe invasero la città, uccidendo circa 7-8000 uomini ed espellendo sistematicamente donne, bambini e anziani.

Il Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia (Icty), istituito nel 1993 dalle Nazioni Unite al fine di giudicare coloro che si fossero macchiati di crimini di guerra e contro l’umanità dopo il 1° gennaio 1991, ha incriminato 21 persone per i delitti commessi a Srebrenica.

Al di là di foto cupe in bianco e nero e di filmati che ben documentano il terribile genocidio avvenuto nella piccola cittadina di Sbrenica durante l’assedio serbo, di graffitti che urlano verità e denunciano quel fatto storico così obbrobrioso, mi riecheggia in testa ancora con forza impetuosa un filmato che ho soprannominato successivamente ‘La relatività del tempo.

Ricordo perfettamente come iniziava: un turista asiatico si aggira tra le strade del centro di Roma, fotocamera al collo e occhi curiosi. Entra in un negozio di sviluppo fotografico e gli viene detto di tornare tra dieci minuti. Dieci minuti? pensa. Sembrano tanti, un tempo sospeso, una piccola pausa. Decide così di fare due passi tra le vie assolate della città, mentre l’orologio segna le 11:50.

Nello stesso istante, in un altro luogo, lontano solo geograficamente ma abissalmente diverso, un altro orologio segna la stessa ora. È in una città bosniaca, probabilmente Sarajevo, durante gli anni cupi della guerra. La scena si sposta su una casa qualunque, piena di vita: una madre culla dolcemente la sua neonata, il padre varca la soglia di casa con un sorriso stanco, mentre il figlio più grande è a tavola in attesa del pranzo. Un’immagine familiare, serena, quasi sacra.

Ma il destino, a volte, si gioca tutto in un gesto insignificante. La madre, accorgendosi di non avere pane, scuote il figlio con tenerezza: «Vai in piazza, stanno per sfornare il pane caldo.» Il ragazzo ubbidisce, esce, percorre le scale e raggiunge la piazza, ignaro di ciò che sta per accadere.

Prende la sua pagnotta. Il pane della salvezza. Torna verso casa. Ma casa, nel frattempo, è diventata un inferno: l’assedio non ha risparmiato nessuno. In un attimo, la sua famiglia non esiste più. Una strage. Dieci minuti e la sua vita si è sgretolata.

La scena torna a Roma. Sono passati dieci minuti. Il turista orientale rientra nel negozio, prende le sue foto, forse scatta un altro sorriso.

Dieci minuti. Bastano a raccontare due mondi. In uno si gusta un piatto di amatriciana e si ritirano fotografie, nell’altro si assiste alla distruzione di un’intera famiglia. Lo stesso tempo, due realtà inconciliabili.

Questo racconto mi ha trafitta nel profondo. Mi ricorda, con violenza struggente, quanto il tempo sia relativo. Come in pochi minuti si possa passare dalla quotidianità alla tragedia. E quanto, davvero, vita e morte siano spesso solo questione di attimi.

Mai, prima di questo viaggio, mi era accaduto di sentire la guerra così vicina, così viva, così mia. In Italia, la guerra ci è sempre sembrata un’eco lontana, un racconto sbiadito affidato alle voci tremolanti dei nonni. Storie d’altri tempi, immagini scolorite, ferite che il tempo ha trasformato in memoria. Ma a Sarajevo no. A Sarajevo la guerra è ancora lì, incisa nella pelle della città, scolpita negli sguardi, nei silenzi, nelle pietre.

Qui, il dolore non appartiene solo al passato. È un presente sottile ma costante, che ti respira accanto. È un fratello maggiore che ti racconta, con occhi segnati, di quando ha visto morire il padre. È un bambino ormai cresciuto che porta dentro il ricordo di una sorellina che non c’è più. A parlare non sono solo le persone: sono le facciate degli edifici, ancora crivellate dai proiettili; sono i palazzi rimasti fermi a un tempo spezzato; sono i cimiteri che spuntano nel cuore della città come lacerazioni mai rimarginate.

Non è voyeurismo. È risveglio della coscienza. È quel colpo secco allo stomaco che ti obbliga a non distogliere lo sguardo, a non coprirti le orecchie. A sentire. Davvero. È l’istinto più umano, sincero, profondo: quello di capire, di avvicinarsi al dolore senza voltare le spalle alla verità. Risuona nella mente una frase potente tratta dal film Venuto al mondo, che da sola racconta un’intera tragedia: "È stato più facile correre sulle granate che camminare sulle macerie." Un pensiero che pesa come piombo, ma che illumina.

Vi porto con me sulla collina di Alifakovac, dove il tempo sembra sospendersi. Qui sorge il più antico cimitero di Sarajevo, immerso in un silenzio che parla. Ogni lapide è una testimonianza. Ogni sentiero, un viaggio. Camminare tra queste pietre è come stringere mani invisibili, ascoltare voci che ancora hanno qualcosa da dire. E se cercate un altro luogo che pulsa di storia e significato, spingetevi fino al cimitero di Kovaći. È lì che riposa Alija Izetbegović, il primo presidente della Bosnia indipendente. La sua tomba, sobria e solenne, è circondata da fiori che sembrano deposti con dolcezza da mani che ancora ricordano. È un luogo che impone rispetto, dove la memoria si fa presenza viva. Tra quei marmi bianchi e il verde che li avvolge, si percepisce una quieta consolazione: come se, in quell’abbraccio collettivo, le anime trovassero finalmente pace. E tu, visitatore, senti nascere dentro una nuova consapevolezza, una struggente volontà di pace.

Quando cuore e pensieri saranno colmi, restate. Sulla stessa collina c’è un piccolo locale all’aperto che vi aspetta. Sedetevi. Lasciate che la luce calda del tramonto vi accarezzi il volto. Bevete qualcosa, ma soprattutto: respirate. Perché quel tramonto, in quel luogo, non sarà mai solo un tramonto. Sarà memoria. Sarà bellezza. Sarà vita che — nonostante tutto — resiste.

 

La poesia in tutte le sue forme

Di recente ho sentito una vecchia intervista di Paolo Bonolis ad Alda Merini, che alla domanda del conduttore “crede che la mente del poeta sia più vulnerabile di quella degli altri’’? La scrittrice milanese risponde così: “Il poeta soffre molto di più però ha una dignità forte che tende ad accettare anche il male, a non difendersi del tutto. Non dover sempre discutere per comprendere da dove venga il male, ma accettarlo e trasformarlo in un abito incandescente, questo fa il poeta. Ecco il cambiamento della materia, che diventa fuoco e si fa amore per gli altri, questa è la magia della poesia: far del bene anche a chi ti ha insultato’’.

Ecco, ripensando a Sarajevo, mi piace ricordarla così: una poetessa umiliata, trucidata, incompresa, svergognata e fatta a brandelli; ma dal cuore così colmo di orgoglio, di bellezza e di ardore, da essersi saputa rivestire di una dignità senza precedenti, come una fenice che vola dalle ceneri e riconquista tutto con il solo atto di tornare a vivere, di costruire, di ricrearsi, con determinazione e con una buona dose di stile, eleganza e raffinatezza.

D’altronde trattasi della città delle rose, e la rosa- si sa- è più bella quando sta sbocciando mentre la  speranza è più viva quando sorge dalle paure.

Quelle paure che i cuori del popolo multiculturale di Sarajevo ben conoscono, ma che sono altresì celate dalla fierezza dei sorrisi in volto di chi non ha rinunciato a credere nel futuro e nella vita, con tenacia e dignità, più di prima, più che mai.

Doviđenja (arrivederci) cara e dolce Sarajevo.

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