31 Gennaio 2025
Nella sua bizzarria il Carnevale è un periodo scherzoso e gioioso, chi lo nega? E senz’altro le mascherate e i carri allegorici che dal 16 febbraio al 4 marzo dilagheranno in tutta Italia portano comicità, spensieratezza, colori squillanti, meravigliosi effetti scenografici. Ne sono prova il “dolcissimo” Carnevale di Fano, nelle Marche, dove la folla assiepata per assistere alle vivaci sfilate viene inondata da una pioggia di migliaia di caramelle e cioccolatini; il Carnevale di Putignano, in Puglia, il più antico d’Europa (è nato nel 1394) che organizza centinaia di animati spettacoli folcloristici al ritmo frenetico della “tammorra”; il Carnevale di Viareggio, in Toscana, caratterizzato da sontuosi giganti di cartapesta che smitizzano temi di attualità, politica e costume con frizzante ironia e goliardica irriverenza.
Ma già la solfa cambia con il Carnevale d’Ivrea, in Piemonte, dove il clou è la furiosa “Battaglia” con il lancio delle arance - e non deve essere piacevole un bernoccolo in testa, sia pure fatto per scherzo. Nel Carnevale di Offida, nelle Marche, si scatenano momenti di panico quando le maschere corrono impazzite dando la caccia al bue rituale tra urla primitive e selvagge. Il Carnevale di Cento, in Emilia Romagna, allestisce parodie di funerali con inni satirici e donne piangenti, vestite a lutto. E che dire del Carnevale di Mamoiada, in Sardegna? Ci vuole una bella fantasia per definire allegri i Mamuthones che sfilano in un silenzio ipnotico, a passi cadenzati, nascosti sotto spaventose maschere di legno nero, e con un mesto sottofondo di campanacci che dovrebbero allontanare gli spiriti del male.
Insomma, il confine riso/pianto è molto labile in questa festa basata sulla simulazione e sul travestimento, sempre sinonimi di mistero. Chi nascondono? Cosa celano? Quali inganni tramano?
Non a caso i Greci chiamavano hupokrités (ipocrita) l’attore che recitava mascherato, e probabilmente non intendevano fargli un complimento. Nemmeno Oscar Wilde scoppia d’ottimismo quando dice che “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e vi dirà la verità”. E anche Pirandello, sull’argomento, appare decisamente immusonito: “Nella vita incontrerai pochi volti e molte maschere”. François de La Rochefoucauld, poi, ci mette il carico da novanta: “Il mondo è composto soltanto da maschere…e siamo talmente abituati a mascherarci dinanzi agli altri che finiamo col mascherarci anche dinanzi a noi stessi”.
Anche nel linguaggio corrente tutti noi diciamo spesso “mettersi una maschera”, “nascondersi dietro una maschera”, “gettare la maschera”, e di sicuro non alludiamo a nulla di buono.
E una cosa è certa: quando nei romanzi, sul palcoscenico, in musica, al cinema, ci sono di mezzo le maschere, ecco che la faccenda si fa brutta, ma brutta parecchio.
Il melodramma abbonda di esempi. E Ruggero Leoncavallo adopera con maestria la doppiezza delle maschere nei “Pagliacci” (1892): la vicenda sembra giuliva, i saltimbanchi fanno burle e sberleffi, gli spettatori ridono a crepapelle e Arlecchino ha appena cantato la serenata forse più incantevole di tutta la storia della lirica ( “O Colombina, il tenero fido Arlecchin È a te vicin! Di te chiamando, E sospirando, aspetta il poverin!”). Ma l’odio, la gelosia, l’omicidio sono in agguato, e Canio travestito da pagliaccio accoltella veramente Colombina (Nedda) e il suo amante Silvio accorso per soccorrerla. Il pubblico pensa a una finzione, poi, atterrito, comprende che invece è realtà, sottolineata, semmai ce ne fosse bisogno, dalla lapidaria battuta di Canio “La commedia è finita!”.
Stesso effetto agghiacciante in Giuseppe Verdi. I cortigiani “vil razza dannata” del “Rigoletto” (1851) si mascherano nella notte tenebrosa per rapire l’ingenua Gilda, figlia dell’infelice buffone, e consegnarla al dissoluto Duca di Mantova; e Renato pugnala a tradimento il Conte Riccardo, il suo migliore amico, convinto che gli abbia insidiato la bella moglie Amelia, nell’angosciosa scena madre di “Un ballo in maschera” (1859).
Le cose non migliorano in letteratura. Nel romanzo il “Fantasma dell’Opera” di Gaston Leroux (1909) la maschera camuffa deformità e disperazione: il protagonista Erik, nato con il volto orribilmente deturpato, non ha mai conosciuto l’amore, e perfino sua madre, sconvolta, lo ha ripudiato. Egli vive da anni nascosto nei sotterranei dell’Opera di Parigi, da lui stesso disseminati di trabocchetti e passaggi segreti, macchiandosi di delitti e terrorizzando artisti, spettatori, operai. Il suo straordinario talento per la musica gli guadagna però la compassione della bella cantante Christine e, prima di morire, ne riceve un casto bacio sulla fronte, l’unico della sua vita terribile.
Al cinema l’ambiguità si vena di surreale con “The Mask” di Chuck Russell (1994) - il protagonista Jim Carrey è un mite e imbranato impiegato di banca nella vita ordinaria, una furia che sgomina imbroglioni e lestofanti quando indossa una misteriosa maschera tribale, con effetti comici vagamente macabri.
A teatro “Una delle ultime sere di carnovale”, scritta da Carlo Goldoni nel 1761, è una trama malinconica sull’addio, sulla partenza, sulle cose che finiscono mentre intorno ferve l’effimera briosità della festa, ed esprime molto bene il dualismo carnevalesco.
E quanti raggiri e congiure nei libri e nei film incentrati sulla “Maschera di ferro”. Troviamo questo racconto ne “Il visconte di Bragelonne” (1847) di Alexandre Dumas padre, ultimo titolo della trilogia composta da “I tre moschettieri” e “Vent’anni dopo”. L’eccezionale romanziere ipotizza che il fratello gemello del re Luigi XIV sia imprigionato nella Bastiglia con il volto coperto da una maschera di ferro per nascondere la sua inopportuna somiglianza e scongiurare così pericolose conseguenze politiche. Vero? Falso? Non si è mai saputo. Il narratore si limita ad annotare: “Quanto sto per narrarvi in parte è leggenda, ma una cosa almeno è realtà. Quando i cittadini francesi insorti distrussero la Bastiglia scoprirono nei suoi archivi questa misteriosa iscrizione: Prigioniero numero 64389000 – l'uomo dalla maschera di ferro”.
Comunque sia, dalla vicenda sono state tratte numerose riduzioni cinematografiche, la più recente è “La Maschera di ferro” del 1998 di Randall Wallace con Leonardo Di Caprio: la scena finale, che dura la bellezza di mezz’ora e vede i mitici moschettieri lottare furiosamente a favore del disgraziato prigioniero, ha un ritmo travolgente, una colonna sonora trascinante ed è davvero indimenticabile.
E la lista potrebbe continuare a lungo. Insomma, carnevale ambiguo? maschere infide e pericolose? Certo. Ma che fascino irresistibile sull’immaginario collettivo!
Di Carla Di Domenico.
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