22 Marzo 2025
Di che cosa è morto George Foreman, l'uomo più forte del mondo, forse di tutti i tempi, il pugile che spazzava via guerrieri in pochi secondi facendo fischiare l'aria, il mostro che trainava gli autoarticolati a 18 ruote con la sola forza del collo, l'incubo che Tyson rifiutò di affrontare, anche se aveva passato i 40 anni, perché i pugili, come i delinquenti, come gli animali, sanno, capiscono, per istinto? Foreman che a 76 anni era ancora potente, si allenava al sacco, un vecchio toro dalle fattezze spaventose, da cartone animato, che divora mucche a colazione. Foreman che da uomo più cattivo di sempre si era trasformato nel più affabile, un predicatore di Cristo, ma quando aveva deciso di tornare alla boxe, abbondantemente in età da pensione, lo aveva fatto e, come vent'anni prima, gli avversari rotolavano come birilli fuori dal ring, schiantavano a terra sotto quei colpi di mazza ferrata e non ricordavano, ma perché sono ancora negli spogliatoi, ma quando comincia l'incontro? Foreman che ha abbattuto tutti, demolito tutti, Frazier e Norton e Lyle, gente terrificante, ma il destino gli aveva riservato gloria imperitura per quella sola sconfitta africana contro Il Più Grande?
Mezzo secolo fa, un'epoca fa, uno di quegli eventi incisi dal coltello della mitologia nel grande albero dell'umanità. Una storia di sport, ma se c'è di mezzo Muhammad Ali è fatale che tutto si dilati a dimensioni epiche, geopolitiche, perfino mistiche, perfino comiche. Ali fu il rap di là da venire e fu la globalizzazione in largo anticipo. Sovrumano, senza discussioni, nel bene e nel male, quasi sempre mescolando gli antipodi, come il 30 ottobre del 1974 che c'è già la tivù a colori, ma non in Zaire e non in Italia: là giocano ritardi strutturali, qui quelli mentali del PCI di Berlinguer, uno che campa su una assurda rendita agiografica, e del repubblicano La Malfa cui è andata meno bene, resta in giusto oblio di politico mediocre. Ma, a proposito di suonati, George Foreman va giù come un dinosauro, un grattacielo, un albero nella foresta africana. Va giù come il muro delle sue certezze, sono il più forte, il più terribile, il più spietato combattente di ogni tempo: mezz'ora, ed è finito tutto e tutto è perduto. “Per giunta contro il più grande sbruffone di tutti i tempi, contro Ali”. Muhammad aveva mescolato il bene per gli africani col male verso Foreman, demolito mentalmente in un mese di preparazione, la sua demagogia nera era sincera e maliziosa, “George è un belga, un razzista, i suoi antenati vennero a schiavizzarvi, io sono venuto a liberarvi”. George non capiva, forse un po' ci soffriva di non farsi amare, ma in fondo poco gli importava: salgo sul ring col Vecchio, un minuto ed è finita, sarà l'incontro più facile di tutti. E in quella ridda di incantesimi e feticheurs, gli stregoni africani, di ruggiti di leoni in lontananza, di misteriose litanie in lingala, Foreman senza saperlo si indeboliva e dopo aver scaricato per mezz'ora la sua furia sulle braccia di Ali, sui fianchi, il pugno ovunque che non riusciva ad arrivare da nessuna parte, si afflosciava sotto una combinazione fulminea, micidiale, giù come un palazzo, come un maggiordomo sessantenne, scriveva Norman Mailer, giù come le certezze di chi ha soltanto quelle, infin che 'l mondo fu sopra lui richiuso. E il mondo aveva la sua bocca aperta e non poteva parlare.
Non ci sarà mai un pugile di apocalittica potenza come Foreman eppure non ce n'è un altro destinato a passare alla storia per la sua sconfitta invece che per la furia con cui annientava tutti. Bastava un colpo solo, non importa quale e a chi. Lo chiamavano il pugno ovunque, perché ovunque arrivasse, scassava. Un muscolo, un osso, un tendine. Ancora poteva permettersi – ci sono i filmati, e sono di ieri - di catapultare lontano il disgraziato che gli tiene il sacco, pesante due, tre volte il normale. Giubilati da tempo più quei baffetti da damerino, unica cosa frivola di un'esistenza brutale, aveva del tutto rinnegato quell'arroganza da campione e la faccia gli si era amabilmente deformata come quella di Toro, il mostro marino di Braccio di Ferro che parlava così: “Adesso Toro ti muore, adesso Toro muore te”.
Ma George no. Prima, sì, faticava a parlare, ma poi aveva messo su quella parlantina fluviale, adorabile, autoironica; mite, oh per l'amor del cielo, Big George che dice cose dolci, pregne di evangelo! Dopo essere stato pugile, è stato predicatore e industriale, businessman. E poi è tornato pugile a 45 anni suonati: cose che forse solo in America potevano succedere. Le tante vite di un mostro. “Sferrava colpi che non credevo possibili in un essere umano” avrebbe scritto Muhammad Ali nella sua autobiografia. C'è un momento, l'ultimo, del match contro Joe Frazier, nel 1973 a Kingston, Jamaica, in cui diventò Campione. Frazier era in carica, faceva il brutto muso, ma a vederli faccia a faccia prima dell'inizio si capiva che pure lui, Smokin' Joe, teneva paura. Certe cose traspaiono, traspirano. L'odore del terrore. Joe crolla sei volte in meno di due round e George lo supplica brutalmente, “Joe, santo cielo, sta' giù, finirò per ucciderti”. Anni dopo, Frazier avrebbe ricordato quell'incubo con l'umorismo di un bluesman: “George mi trattò come uno yo-yo”. Nell'ultima scena c'è un colpo di Foreman, un uppercut, e Frazier lì per lì resta fermo, come marmorizzato; poi tutto il mondo vede una cosa orribile, vede il suo corpo che si stacca da terra, vola per aria e rovina penosamente. Joe in quell'incontro pesava 103 chili. Un anno dopo a Caracas Ken Norton sarebbe finito soffiato via da botte che non sembravano neanche botte, sembravano spintoni. Tutti i pugili temevano di finire ammazzati salendo con Foreman. Anche quando Ali esce dallo spogliatoio dello stadio XXIV Maggio di Kinshasa, il suo equipaggio sembra avviarsi ad una commemorazione funebre e lui come un profeta li deve riscuotere: “Perché siete così tetri? Di cosa avete paura?”. Che ti ammazzi, Muhammad. Tu sei orgoglioso, non ti arrenderai mai, ma quello è capace di farti fuori. E ricordavano tutti la cosa terribile che aveva confidato uno sparring ad Ali che gli chiedeva quale fosse il colpo migliore di Foreman: “Non ha un colpo migliore. Ogni suo colpo se ti va bene ti storpia”. Se no? “Ti uccide”.
Alle Olimpiadi di Città del Messico Foreman è ancora un acerbo dilettante di 19 anni ma questo non lo rende più umano, l'italiano Giorgio Bambini ha la sventura di sfidarlo, il primo diretto che sembra un tram lo sfiora e lui sente fischiare l'aria e allora si butta per terra. “Alzati, vigliacco!”. “Mica son scemo, capo, quello mi stacca la testa!”. Il fatto è che George, mostro, ci era nato. In Texas, a Marshall, cresce storto, da un padre che non è suo padre, la solita storia dei pugili predestinati, 40 volte dentro e fuori dal riformatorio quando non ha ancora 12 anni. Si metteva all'angolo della strada e pretendeva il pizzo da chiunque volesse attraversare. “Non gli servono armi, è lui l'arma” spiega il fratello. Poi, si sa come vanno a finire queste cose: o in quel vicolo di crepi, o qualcuno ti salva, ti sbatte fra 4 corde e il resto è storia. La storia di George, quest'uomo semplice, feroce, è complicata come un arabesco. Si forma come sparring di Sonny Liston, il campione feroce della mafia, il Male nel Quadrato, ne apprende brutalità e trucchi, se ne distacca, anche perché Liston viene umiliato da un acerbo Cassius Clay, non ancora Ali, comincia a volare per conto suo, soffia via tutti in pochi secondi, diventa campione, perde tutto in mezz'ora in Zaire, crolla in una depressione micidiale, si sbanda, si perde. Nel 1977, dopo un incontro pessimo con il mediocre Jimmy Young, sente le voci: “E' Dio che mi sta chiamando, mi sta dicendo che devo cambiare vita”. No, è la disidratazione seguita da ipertermia che fa di questi scherzi, ma nessuno si fida a spiegarglielo: il pugno ovunque, George ce l'ha sempre e con quello non conosce amici o nemici. E poi siamo pur sempre in America, e forse tutti i torti Big George non ce li ha se davvero cambia vita, dà via la villona, i 47 televisori, le fuoriserie, le belve da giardino, diventa predicatore e riempie la sua chiesa, fonda centri correzionali: adesso è un uomo amabile, amministra l'amore, la pace, la comprensione dopo aver spaccato mostri come lui. L'incontro con Ron Lyle, nel '76, fu un cinema. Ron era un altro di quelli violentissimi, un ex marine ed ex galeotto, si diceva perfino avesse ucciso un uomo, non ha paura di nessuno, neanche di Big George. Cominciano a pestarsi come due colossi in un vicolo, quando uno è al tracollo trova la forza di un'ultima mazzata e al tappeto ci finisce quell'altro. Va avanti così per 5 round, due atterramenti a testa, una cosa incredibile. Poi George s'incazza davvero, trova un varco, sfonda faccia e torace di Ron che si affloscia per non rialzarsi più. Sylvester Stallone, a bordo ring, prende nota.
George si allenava a Kinshasa prima di sfidare Ali che a distanza gli urlava: “Tu sei il toro, io il matador”. George si allenava al sacco potenziato, quello da 3 quintali: glielo teneva un piccoletto, Dick Sadler, ad ogni mazzata di Foreman rimbalzava da terra dicendo: “Aye”. Dopo un po' il sacco aveva dentro un buco grande come un cocomero. Ma adesso George è in chiesa, predica l'amore e tutti lo amano. Lo ameranno anche in versione businessman: lancia una linea di elettrodomestici a suo nome, la “George Foreman Grill”, ne vende oltre 100 milioni, fa ancora più soldi che menando. Ma la boxe è nel suo sangue, che sia versato o, più di frequente, fatto versare. Così nel 1987 ritorna e nel 1994, a quasi 46 primavere, dopo una seconda carriera arabescata, si ritrova campione contro Michael Moorer: è obeso, lento, vecchio ma il pugno ovunque è sempre e, come sempre, ne basta uno, uno solo. Ovunque per dovunque e Moorer che ha 20 anni di meno crolla in un tornado di sangue, gli occhi vitrei, più sorpresi che atterriti,
Dicono, lo dicono, che Tyson negli anni migliori sia sempre stato attento a non incrociarlo. Il vecchio George lo sfidava, dove sei, fatti trovare, sto venendo a prenderti, ma Mike da quell'orecchio lì non ci sentiva: lui poteva abbattere, ma George travolgeva via come un angelo vendicatore. George è nonno e bisnonno, cinque dei suoi dieci figli (che una volta riportò indietro da una moglie fuggiasca grazie all'intercessione di alcuni narcos colombiani) si chiamano come lui, “così non dovrò lambiccarmi quando avrò perso la memoria, succede a tutti i pugili suonati”. È un pastore, un pugilatore, un industriale, una creatura inumana. Lo odiarono: adesso lo adorano. È l'ultimo superstite di una stagione irripetibile nella boxe, quando erano re, re guerrieri. C'è una scena in “Rocky Balboa”, del 2006, scritto da Stallone sulla falsariga del ritorno senile di George sul, ring. Quando Rocky, nel suo ristorante, riceve i manager del Campione, Mason Dixon e per un attimo deve allontanarsi; allora i due marpioni sottovoce, confabulano: “Fortuna che ormai è vecchio, se lo incontrava all'apice, Mason era morto. Morto, era morto”.
E poi di colpo sappiamo che è George è andato? Non ci sta bene, non possiamo crederci. Non possiamo! I supereroi non muoiono, cazzo. La potenza di Dio come fa a morire? Se ci lascia l'eternità, cosa ci resta? Se voi sapete un po' di pugilato capite che non è accettabile, che non sta nella ragione delle cose la scomparsa di Foreman che era indistruttibile, che ha segnato la nostra vita adolescente, ci ha dimostrato che in un tempo sovrumano c'erano uomini sovrumani che potevano fare cose disumane. E ci esaltavano, anche se quella era l'America e stava altrove. Ci davano la forza di andare a scuola, di resistere al bullo, di impegnarci in qualcosa, di trovare qualcosa per cui volare. George ha predicato con le parole e coi pugni, con la Croce e con i grill, con le opere di bene ed i guantoni. E adesso non c'è più ma non è vero, non è vero, non può essere vero. Come hai potuto morire tu George? Per cosa sei morto? Perché non ce lo dicono? Perché continuano a mentirci? Tu non sei morto George, se muori tu muore l'America, muoiono i '70, moriamo noi ragazzi, se muori tu è tutto finito.
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