26 Febbraio 2024
Sessant’anni fa (ieri, questione di fuso orario), una storia epocale, di quelle che poi non passano più. E' una lunga storia. È una lunga marcia di avvicinamento, qualcosa di scientifico che, dietro l'apparenza di un comportamento delirante, non lascia niente al caso. Cassius Clay, il ragazzo meraviglia, vince prima di combattere un incontro impossibile. Osservatelo nel faccia a faccia che precede l'incontro mentre guarda torvo Sonny Liston, il distruttore, capace di annientare chiunque solo con lo sguardo: non Clay, che lo guarda dall'alto in basso: incombo, sono più grosso di te. Una cosa spesso sfuggita, del pugile Ali, è la stazza. Le magnifiche proporzioni, l'armoniosità pittorica che sprigiona in ogni sua fibra fanno dimenticare che egli è un uomo di cento chili, magnificamente costruito per combattere. Da giovane è assai asciutto, definito, come un pugile che si specchia nella sua funzionalità. È una statua. Invecchiando si appesantirà, anche per precise ragioni tattiche, ma i suoi 191 centimetri in altezza, culminanti in un volto da attore del cinema, lasciano dimenticare che Ali può anche annientare. Egli è bello, bellissimo e la bellezza, dal kalos kagathos greco a Dostoevskij, è quella che salva il mondo: Ali è bello, nessuno può immaginarselo picchiare un comune mortale in un parcheggio. La violenza di ciò che fa per vivere ne esce attutita o almeno giustificata: quegli altri, i suoi avversari, sono brutti, sono cattivi, è giusto che vengano massacrati squisitamente da Ali.
Lui lo sa e ne approfitta, la sua crudeltà è anche mentale, come quando giustizia Terrell, e mai nessun pugile è arrivato a tale sadismo: “Come mi chiamo io? Come mi chiamo?”, mentre protrae un massacro prolungato, scientifico, fino all'estrema sopportabilità, sotto gli occhi del mondo. Ali ammetterà di non aver voluto spedire al tappeto Ernie per infliggergli una sofferenza interminabile; in più, aggiunge l'umiliazione. A Floyd Patterson non era andata meglio, nell'incontro probabilmente più completo, a livello stilistico, di Ali. Floyd sopporta per 12 riprese la cattiveria del Campione, che non ha alcuna pietà, nessun rispetto e mostra a tutti quanto possa essere pericoloso azzardarsi a resistere contro di lui. Ma Ali è bello, armonioso, sa che tutto gli viene perdonato. Anche la cattiveria che aveva riservato a Liston. Clay è un moccioso che si vanta, ha 22 anni, e come tale lo vede Sonny. Ma la sua malizia è già matura, Sonny sperimenta per primo la demolizione psicologica, razziale, sociale che Clay riserverà ad ogni avversario giudicato pericoloso: è un bianco, un cristiano, un servo, un raccoglitore di cotone, è brutto, fa schifo, è scemo, un delinquente, un avanzo di galera, un orso nero, un gorilla, puzza, è ritardato. In queste attenzioni delicate, c'è tutto il cinismo di un Clay che si sta già erigendo a totem, a dio in terra della sua gente. Più avanti, altri pugili racconteranno di come Ali d'improvviso interrompesse la sequela di insulti, di provocazioni sussurrando la solita frase della suprema ipocrisia americana: “stammi dietro, reggi il gioco, ti va di fare un po' di soldi extra, giusto?”. Dirà lui un giorno: “La mia aggressività sul ring seguiva precisi schemi recitativi, come del resto accade per molte attività umane”. Per Nietzsche, “Ogni talento si rivela nel combattimento”. Altri la chiamerebbero faccia tosta, perché tutto diventa personale quando attacchi qualcuno sui propri lineamenti, sul colore della pelle, sulle presunte lacune intellettuali, addirittura mentali. Forse non sarà stato personale per Ali, che non ha mai ricevuto insulti, giusto qualche educata obiezione, come quella di Joe Louis ai tempi delle sfide con Liston: “Penso che stia facendo esattamente l'opposto di ciò per cui noi neri ci siamo battuti per 100 anni”. Cioè usare lo sport per integrarsi. Cassius-Ali lo sta usando per disintegrare, a tutti i livelli.
Clay bracca Liston, va a rompergli i coglioni a domicilio, su un furgone adeguatamente addobbato per l'occasione – però, che strategia promozionale in anticipo sui tempi. “Non è brutto? Io invece sono giovane, veloce, bello e imbattibile”. Si potrebbe anche dire che Clay, Padre di tutti i rapper, inventa qui ed ora il prototipo della rockstar – bella, arrogante, chiassosa, esagerata. Liston non solo non è preparato a reggere una simile strategia di avvicinamento, ma non possiede neppure gli strumenti culturali per arginarla, per contrastarla – ma chi li avrebbe posseduti? I vari Frazier, Foreman, giunto il loro turno, ci sarebbero cascati tutti allo stesso modo. Sonny, nella sua tetraggine blues, un blues rurale, senza uscita, non può che abbozzare, accumulare rabbia e pregare che venga il giorno dell'incontro.
La sera prima, Clay si lascia andare alla sceneggiata regina durante il peso con tanto di crisi isterica autoindotta e pulsazioni a raffica oltre il limite. Quando gliele ricontrollano, pochi minuti dopo, sono regolari come un orologio e c'è chi, nello staff medico, nell'armata dei cronisti, comincia a chiedersi se quel giovanotto così sveglio, così magnificamente dotato per la boxe, non sia in realtà un povero squilibrato. Se lo chiede anche Liston, che però a questo punto comincia ad avere paura come la fanno i matti. Aveva a sua volta terrorizzato Clay, giorni prima, puntandogli contro una pistola scarica. Ma non era servito, e adesso è ragionevolmente preoccupato perché i pazzi sono imprevedibili e se è un insano di cento chili disposto a menarti, allora la faccenda si complica maledettamente. Adesso eccolo qui, il folle, che lo fissa, cupo, dall'alto in basso. Clay non è calmo come sembra, la tensione divora anche lui. Ha addosso il denso malanimo di un Paese che non lo ama, che è già esacerbato dalle sue continue provocazioni, e la stampa lo pronostica, pressoché all'unanimità, più massacrato che perdente, in pochi secondi. Sotto il suo accappatoio con la scritta “The Lip”, il labbro, c'è un ragazzo che forse sospetta di avere messo in piedi un circo troppo grande per lui. Ma riesce ad imporsi lucidità. Sa che, se tutto andrà come lui ha immaginato, dopo questo incontro (e fino a Foreman) sarà sempre lui il protagonista, il favorito assoluto, e sarà “l'altro” a dover avere paura, a sentire su di sé il peso di una pressione insostenibile.
L'incontro sarà una danza, rimasta celeberrima, con tutti i suoi momenti che ormai ogni appassionato di pugilato conosce a memoria. Clay che comincia a schizzare, più che danzare, da tutte le parti, Liston che lavora di jab e scarica il destro ma tradisce subito la sindrome di Stoccolma, quell'impossibilità di scatenare tutta la sua devastante potenza che, dieci anni dopo, Foreman interpreterà nello stesso identico modo, autorizzando, nello stesso identico modo, i sospetti di combine. Ma la verità è che Clay salta di qua e di là e nel contempo scarica raffiche di colpi pesanti. “Che cazzo”, confiderà poi Liston a Ferdie Pacheco, lo storico doc di Ali all'angolo, “mi avevano detto che non sapeva colpire, ma quel ragazzino mena come un pazzo!”. Dopo due riprese Liston è già gonfio non meno che affascinato. Poi arriva l'affaire dell'unguento irritante, che, spalmato sulle spalle di Liston, durante un corpo a corpo finisce negli occhi di Clay. Come averli pieni di spine. “Non ci vedo, non vedo niente!” urla il ragazzo ed è pronto ad abbandonare; al suono del gong lo sospinge avanti il manager, Angelo Dundee, non prima essersi sfregato in faccia la spugna che usa per rinfrescare il pupillo: è praticamente l'unico bianco in un angolo di neri, sospettosissimi e incazzatissimi, e non solo Cassius, anche lui deve portare a casa la pelle. Clay torna dentro, alla mercé di un orso furibondo. Adesso Liston ricorda, o meglio anticipa, la furia che sarà di Foreman tra un decennio: scarica violenza bruta sul corpo di Clay. Ma questi non si spaventa, anche menomato riesce a sfuggirgli o quantomeno ad assorbire le sventole più pesanti. Clay può tener testa al terribile Liston perfino da non vedente. Verso la fine della ripresa, Sonny perde ogni residua speranza e Clay riacquista quel poco di visuale che gli basta a guadagnare il gong. Siamo più o meno a metà, ma l'incontro è andato. Quel che ne resta è solo una via crucis per Liston, sempre più stanco, sempre più ansimante, e sempre più bersaglio per le combinazioni magistrali di un Clay imprendibile. Sotto la incredibile varietà di affondi di Cassius, montanti, diretti, jab, ganci, colpi a guantone aperto, trucchi da pugile esperto, vengono fuori tutti i 32, 37 o chissà quanti diavolo di anni di un pugile improvvisamente finito, mentre fino a venti minuti prima pareva invincibile. Retrospettivamente, Clay dirà una cosa una volta tanto non esagerata, non gratuita: “Lascia che te lo dica, amico, quando scese dal ring sembrava invecchiato di 20 anni”.
Più esattamente, si potrebbe dire che Liston aveva in un colpo solo raggiunto la sua vera età, sempre misteriosa. Alla fine della settima, non vuole più continuare. Lussazione alla spalla, dicono i secondi. Lussazione alla faccia, alla mente, dappertutto, è la verità vera. Consapevolezza che, adesso, quello invincibile è Clay. Il mondo ha appena visto in televisione il quinto canto dell'Eneide, la sfida pugilistica tra Darete giovane fiore di velocità leggiadra, ed Entello possente masso di violenza assoluta. Ma questa volta l'orgoglio non soccorre Entello, che s'arrende a un rivale imprendibile.
Non mentiva il ragazzo quando profetava il suo trionfo entro 8 riprese. Sapeva. Aveva capito tutto e lo aveva capito anche Liston. Chi non ci ha capito niente, a bordo ring, è Rocky Marciano. Osserva la farfalla omicida e non capisce, proprio non si capacita, lui combattente brutale, di quel maledetto modo danzante di fare a pugni: “E quello, chi cazzo è?”. Il giorno dopo, Jimmy Cannon uscirà titolando la sua cronaca dell'incontro con lo sbotto di Rocco, “Chi diavolo è quello?”. Liston invece aveva capito benissimo. Tetro era salito, ancor più tetro (e gonfio) era disceso dal ring. Io me ne torno negli spogliatoi, e voi pensate quel cazzo che volete, anche che io abbia scommesso contro me stesso. Poi si potrà dire che aveva preso il ragazzo sottogamba, che non si era allenato a dovere, che aveva passato più tempo con le puttane che con gli sparring. Balle. Liston si era sempre “allenato” così. Tutti i campioni, belve carnivore dagli smodati appetiti, si allenano così. L'unica cosa vera, è che se pure Sonny ci avesse dato sotto in palestra fino a scoppiare, il risultato non sarebbe cambiato: quella sconfitta era scritta nel cielo e un pugile, quando la campana suona per lui, lo sente. Meglio e prima di tutti. Di tragico, ed è una tragedia che si ripete spesso con Muhammad Ali, c'è che in quel momento, Liston comincia a morire. Non tornerà più Campione, non risalirà più la china. La storia della boxe è piena di asciugamani caduti sul quadrato, di spugne gettate e paradenti sputati, “No mas”, basta, disse Roberto “mani di pietra” Duran alle prese col più convincente emulo di Clay, Ray Sugar Leonard. Ma nessuna rinuncia è mai stata più drammatica di questo tramonto in bianco e nero, una notte di maggio del 1964, mentre la boxe sta entrando nella sua modernità. Liston scende i gradini del suo Golgota, e Clay si abbandona alla solita sceneggiata, “Ho scosso il mondo! Ho scosso il mondo”, e sbraita a tutta bocca contro i giornalisti miscredenti: “Chi aveva ragione? CHI AVEVA RAGIONE?”. E anche in questa sonora buffonata c'è tutto l'eccesso di un atleta che per l'intera carriera eccede se stesso, nel bene e nel male, fino ad annientarsi.
L'incontro di rivincita, un anno dopo, semplicemente non esiste. Liston sembra più concentrato, più in forma, tirato a lucido, ma a guardarlo bene rivela un uomo rassegnato a fare quello che ha deciso. Guarda in basso, verso il tappeto: ci vediamo tra un attimo. Centoventi secondi dopo, Entello “pesante, pesantemente cadde a terra col gran peso”, ed è tutto finito. Qualsiasi sospetto è lecito. Anche che Liston sia stato costretto a cedere il titolo dalla mafia originale in combinazione con l'altra, parallela, dei Musulmani Neri (è la tesi, non priva di documentazione, di Paolo Potalivo ne “L'altra verità – Sonny Liston Vs Muhammad Ali”). Ma la sensazione, anche senza la sceneggiata che tra un istante rievocheremo, è che il copione non sarebbe mutato, che comunque Liston non sarebbe mai riuscito ad agguantare un Clay, nel frattempo votatosi all’Islam con un nuovo nome, ancora più determinato e sicuro nella sua danza. Arriva prima un destro, discretamente solido, poi un'ombra di cazzotto e Liston frana. Il pugno c'è, intendiamoci, ma è più che altro una carezza. Sonny sembra accompagnarlo girando la faccia oltremisura prima di franare rotolandosi, in una atroce farsa che vorrebbe essere crudele, una volta tanto, verso Clay, oramai Ali. E lo è. L'altro si ribella, in quello scatto di Neil Leifer che resterà l'icona definitiva del Più Grande: ironicamente, è la sua vittoria di Pirro, il suo momento di maggior frustrazione mentre urla “Alzati stronzo!” e l'altro continua l'aggrovigliarsi osceno: uno scatto immortale, quello di Neil Leifer, diventato mille dipinti, tra i quali quello del chitarrista dei Rolling Stones, Ron Wood. Il conteggio arriva più o meno a 14, Liston finalmente si tira su, ricominciano, anzi cominciano sul serio, a battersi, Ali è una furia scatenata, in pochi istanti copre Liston con una raffica di 20 pugni ma è finita, l'arbitro li separa. Finita prima di cominciare. Liston, come l'anno prima, scende i suoi gradini, pensate un po' quel cazzo che volete. Ali deve cominciare a mentire, a millantare, sarà condannato a farlo, sul punto, per tutta la carriera, e alla fine troverà se non altro una brillante autoironia: “Il pugno àncora (definizione di Jack Johnson). Ecco cosa fu. 4 millesimi di secondo. Sai il contatore della luce, lo sai come va, no? Vvvvr!”. E ci mette 16 millesimi. Il tempo di un battito di ciglia. Ora, io ce ne ho messi 4 a colpire Liston. Proprio in quel momento, tutti hanno sbattuto gli occhi”.
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