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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Gianni Rivera fa 80 anni: nessuno come lui (e adesso vuole allenare: perché non la Nazionale?)

Fu il campione dei campioni in un Rinascimento italiano e milanese dove fiorivano eccellenze di ogni tipo. Fu anche il simbolo di una Milano vitale e violenta, contraddittoria, epocale, dove potevamo fingere di essere felici.

17 Agosto 2023

Gianni Rivera

Passava per noioso il Gianni con la Oriana Fallaci che infatti glielo diceva, glielo faceva capire, bambino assennato giudizioso noioso, ma il Gianni non era noioso, era mandrogno, un alessandrino di terra, concreto, apparentemente semplice. Invece non era semplice per niente quando in campo illuminava traiettorie, tracciando possibilità sconosciute agli umani. La scena va distillata al ralenti. C'è un pallone che parte da un piede, s'invola, dopo una rotta di pochi secondi eterni atterra in un ideale punto voluto. Non è telecomandato, è telepatico. Alcuni giocatori, pochissimi, avevano la facoltà d'indirizzare alla sfera le proprie onde psichiche o forse le trasmettevano al piede, ma il risultato non cambia: un mistero di calcio vero, quello venerato da Pier Paolo Pasolini e Carmelo Bene. Questo è stato Gianni Rivera, questo sarà per sempre Rivera che domani compie 80 anni e sono anni, decenni di vita italiana. Un mandrogno, per dire un concreto, banale ma era invece uno che già ragazzino aveva capito come funzionava, aveva capito che se a 16 anni giochi nel Milan, con tutti gli occhi addosso, o resti attaccato alla terra o duri poco. È durato venti stagioni e il Milan era lui e lui era il Milan. Non da solo, certo, ma Nereo Rocco lo sapeva: datemi un filotto di giocatori bravi, non trascendentali, ma in mezzo mettetemi il Gianni e poi ci penso io a vincere tutto. “Xe un genio, signori”.

Freddo mandrogno sparagnino, ma ha sempre avuto una vita passionale e discretamente incasinata. All’epoca i giocatori avevano vite leggendarie, di romanzo: l’orfano Gigi Riva, di Leggiuno, che capita in Sardegna, vuole scapparsene, problematico com’è, ma vince e diventa un dio, gli portano agnelli sacrificali e, se vuole, i rapiti. Con delle storie così, sì, bravo il Gioann Brera fu Carlo a cantarle, ma di materiale quanto ne vuoi, di epos quanto me vuoi. Oggi parlano tutti solo di soldi, di ingaggi. E di puttane che i campioni sposano, lasciano, riprendono, che noia. “Il Gianni” sapeva parlare (difatti poi è diventato un politico), in campo e a nome dei colleghi nelle prime battaglie “politiche” dei giocatori. Una volta si appiccia con Lo Bello, l’arbitro siciliano dai modi mafiosi, uno che poteva sibilare prima di una partita “quello rompetemelo”, perché si era permesso, Riva, dico, si era permesso di contestarlo e aveva ragione, Lo Bello, se gli girava, dava certi rigori scandalosi che neanche Byron Moreno. E Riva usciva dal campo infermo e Lo Bello col suo ghigno mafioso neanche espelleva il killer. Ma Rivera gliele mandava a dire e si prendeva 8 giornate di squalifica. “Gioca” scriveva Brera, che lo amava e lo odiava, “di puro orgoglio, sovrastato da problemi economici e sentimentali”. Da cui una statura iconica che l’assoluta grandezza del calciatore spiega solo in parte: dici Rivera e dici, per opposto, per trascinamento, Sandrino Mazzola e lì si schiude, “come un uovo di eternità”, tutto un universo proustiano di Italia e di Milano del benessere e della ferocia: la metropoli della banda Cavallero, venuta dalla Barriera di Torino, delle povere donne meridionali che sposavano al paese poi salivano e il marito le buttava sul marciapiede, si faceva mantenere, le cedeva ai parenti ma un brutto giorno gli saliva, chissà come, la gelosia e le faceva fuori. E i giornali muti. Invece, mille fotografie del Gianni e del Sandrino, nelle loro omeriche strette di mano prima di un derby c'era la Storia: l'Italia si piegava su Milano che si piegava su San Siro e non esisteva più altro. Giorgio Bocca ci ha lasciato pagine memorabili su quella Milano d’oro e di sangue, di lavoro e di schiavismo, e lì il Milan e l’Inter erano parti costituenti e il Gianni e il Sandrino il lievito; e si poteva fingere, credere di essere felici.

Cosa era quella benedetta maledetta città di cui parlava il cardinale Martini? Una Milano fosca, feroce, ma entusiasmante dove la malavita mafiosa conviveva con i traffici di ogni tipo, perfino leciti, guardie armate all’entrata del Ragno d’Oro, accoltellamenti all’Idroscalo per un parcheggio, e c’era posto per tutti o così si prometteva e la gente ci credeva in un futuro migliore e uno stemma municipale tradiva l'orgoglio di una città. Impensabile vedere dei vandali salire sull’arco della Galleria e ridurlo un cavalcavia di scritte deliranti! Giocava e incantava questo prodigioso calciatore, vanto dell’Italia nel mondo, come la Ferrari, ma mai particolarmente amato della politica sportiva che allora come oggi non ama quelli che parlano, che ragionano, consapevoli del valore anche di uomo, quel vago disincanto che velava l'orgoglio. Riprende il replay, tutto scorre in slow motion, anche le canzoni: il pallone d’oro, nello scorno mai guarito di Mazzola, la staffetta in Mexico, la fatal Verona, stiamo qui a raccontare cose antiche, ignote a chi ha meno di 60 anni, ma c’erano e ci segnavano, fino alla sera che dal cielo di san Siro scese la Stella dopo una partita con comizio incluso, chè i tifosi si straripavano fin dentro il campo e Rivera, chi se non lui?, doveva convincerli col microfono in mano a ritirare la marea d'amore, sennò decimo scudetto e stella andavano a farsi fottere. Lui ancora non lo sapeva, ma i milanisti sì che lo sapevano, lo sentivamo che quello era un addio nel sole infuocato del tramonto sopra San Siro.

Avanti e indietro, indietro ancora, la mattanza con l’Estudiantes, non una squadra di calcio ma una cosca di criminali, la partita più violenta di tutti i tempi, avevano anche rapito Combin, l’indio, il rinnegato, e volevano farlo fuori in carcere ma i compagni, che rischiavano la pelle anche loro: se non ce lo ridanno noi non ci muoviamo da qui. In campo li avevano presi a testate, a calci in faccia, feriti con aghi, ma Rivera, in fama di pauroso, andava a fare gol, addirittura, a periglio di costole e di stinchi. Perfino i più fanatici tra i fanatici della televisione argentina dovettero ammettere: ci vergogniamo di ciò che stiamo vedendo. Il portiere Poletti che saltava con mossa da kung fu cercando di spezzare la spina dorsale di Prati. All’entrata in campo, un Rocco esterrefatto raccontava in collegamento via satellite: “Signori, ci stanno tirando addosso di tutto, incluso caffè bollente, a volte direttamente dentro le moke”. Pochi mesi dopo “Rivera sei un Dio” urlò l'Italia tutta in quella notte fatata del 17 giugno 1970 saltando davanti alla tv, Mayer il tedesco da una parte, la palletta telecomandata di Rivera dall'altra: così andò l'apoteosi di Italia-Germania 4-3. buon per noi ma soprattutto per lui, che un minuto prima aveva lasciato passare un gol nella porta di Albertosi che dopo un rosario di insulti concludeva: finito qui ti ammazzo, tu a casa vivo non ci torni. Ricky Albertosi il toscano, eterno rivale di Zoff, il friulano di ferro, aspro essenziale quanto l’altro era teatrale. Dicevano che, ai tempi del Milan, nell’intervallo Albertosi scavallasse, sigaretta in bocca andava all’ippodromo di fianco a puntare ai cavalli ancora con gli scarpini da gioco e poi tornasse in campo per la ripresa, dove avrebbe parato più o meno bene a seconda dell’esito della puntata. I calciatori erano angeli sporchi davvero, quelli della Lazio del ‘74 tutti con la pistola, un delirio, ma anche loro davanti a Romeo Benetti non si azzardavano, quello ti rendeva storpio per il gusto di farlo. Lo aveva fatto anche solo per un favore personale, lo aveva fatto su Franco Liguori, giovane promessa del Bologna, una carriera spezzata sul nascere. Ma Rocco, in un incontro di coppa: “Romeo sta’ ‘ndrio, che perdemo un milion!”. Alludeva al premio per il passaggio del turno, tutti in difesa a blindare il golletto di Rivera in contropiede o per chissà quale geometria celeste. Albertino Bigon a forza di sentire il Paròn che si raccomandava con Benetti non ce la faceva più, chiedeva il cambio per il gran ridere, crampi allo stomaco. Quel calcio là.

Tutt’altra storia il Gianni, sempre in punta di piedi, per dire in campo come su un tappeto da arabescare. Fioriva una leggenda agrodolce: “Rivera non cade mai”, per dire che stava ai margini della mischia (falso) ma anche che era il più elegante, lineare, armonioso in campo. Bisogna solo vederlo su Youtube per capire la differenza, anche oggi. Sedici anni all'esordio in serie A col Milan ma al provino si permise un tunnel a Nils Liedholm, che vent'anni dopo lo allenerà, e lo svedese, padreterno di ghiaccio, invece di spaccargli un menisco: “Arrivederci a Milano”. Gipo Viani vedeva e non credeva: “Ma lo sa, presidente, cosa ha fatto quel bambino? Ha fatto un tunnel a Liedholm e poi, quando se lo è ritrovato davanti un’altra volta, Nils ha chiuso le gambe d’istinto e lui lo ha saltato in pallonetto”. C’è un bel libro, ormai perduto, di Andrea Maietti, “Nato a Betlemme”: “Il mondo non ha visto il primo, vero Rivera, quello che a forza di finte e di veroniche si beveva un’intera squadra avversaria come neanche Maradona”. A me, che lo intervistavo in un suo ufficio romano, non mandrogno, di poteere, non ricordo più se da assessore o europarlamentare, ma pieno dei suoi trofei, e poi dicevano che ra un freddo, a me che gli chiedevo da pirla come si sarebbe trovato nel calcio supersonico di oggi, lui dava una risposta condiscendente, una risposta mandrogna: “Sapendo giocare, mi sarei adattato”. Voleva dire che era il calcio attuale, sempre più fisico ma povero di talento, che si sarebbe dovuto adeguare al tasso tecnico che avevano loro: lui, il Sandrino, il Mariolino Corso del quale la lady Moratti diceva, in milanese: “El val pussè cinq minuti del Mariolino che on’ora de tut j alter”. Mariolino che arrivava un campanile giù da 40 metri e lo arpionava di collo del piede e senza toccar terra la palla ripartiva per un compagno smarcato; al che Pelè, era un’amichevole col Santos, smetteva di giocare e platealmente gli andava incontro applaudendo. È la solita storia che non riusciremo mai a capire: come mai in quel Rinascimento italiano, lombardo, meneghino così tanti genii di tutte le risme, nel pallone, nella tecnica, nell’arte, nell’automobile, mah, sarà che allora il tempo dava tempo al tempo, consentiva fioriture meravigliose, irripetibili.

Anni di Rivera, di Nereo Rocco all'Assassino, il ristorante-quartier generale del Milan, degl'interisti “geneticamente diversi dalla razza umana” (e viceversa, si capisce), oggi ci scherziamo ma all’epoca c’era chi davvero teorizzava robe come questa. Il Dogui, Guido Nicheli, il cumenda dei film dei Vanzina, gli chiedono sei interista e lui esplode con un ghigno: “Negativo! Ma non vedi la faccia? Ma ti pare una faccia da Inter questa?”. E adesso buttan giù lo stadio, forse, dopo cent’anni a fare da sentinella nella nebbia. Com'è triste san Siro quando la partita è finita e si torna indietro sul tram che scoppia e vien giù la sera e domenica è finita e pare una canzone di Jannacci. Fa freddo, c’è la malinconia di Milano che è come una coltellata sul tram. E poi Rivera va via, come si spegne un cero e il calcio no, non è più quello e non è una frase fatta. Bisogna averlo passato, quel tempo lì, bisogna esserci stati su quegli spalti di marmo ghiacciato che ti congelavano il culo, altro che poltroncine riscaldate, ma fosse solo quello, ormai di romantico c’è più niente. Ha 80 anni il Gianni e non è mai cambiato, sempre la stessa pettinatura fuori moda, ormai candida, lo stesso fisico “da abatino” che non piaceva a Brera, la stessa parlantina dalla “r” arrotata. Eterno ragazzo anche lui, come l’altro Gianni, il Morandi. E adesso vuole allenare, santo cielo, a 80 anni vuole prender su una squadra: un sogno, la Nazionale, ma sappiamo che è impossibile. Che poi magari a lasciarlo fare ha ragione lui un’altra volta, alla fine il gioco del calcio è per chi lo sa giocare, non per gli apprendisti stregoni. “Il Gianni” per l'Italia è stato uno di famiglia, uno che, alla fine, faceva quelle magie in campo solo per i povericristi che gelavano su in gradinata. Aveva il potere di salvare o dannare una settimana, sulle sue illuminazioni venivano erette cattedrali di parole, inaugurate crociate, mentre lui procedeva a vigorose diatribe coi giornalisti, gli arbitri e il “sistema”. Una teleologia calcistica rimasta in piedi mentre tutto cambiava, tutto passava. Ma il genio non passa, l'immenso caos che ha riempito le nostre stagioni illusorie s’impacchetta nel Tempo che nei 80 anni del Gianni pare riavvolgersi come non fosse mai successo nulla. Se non è troppo vecchio lui per allenare, allora non lo siamo neanche noi per sognare, per ricordare.

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