08 Giugno 2025
fonte: pixabay
La recente liberazione di Giovanni Brusca, mafioso responsabile di una delle stagioni più drammatiche della nostra storia, ha riaperto in molti cittadini una ferita mai del tutto rimarginata. Comprensibilmente. Brusca non è solo l’uomo che ha azionato il telecomando di Capaci, ma anche colui che ha confessato oltre cento omicidi, tra cui quello terribile del piccolo Giuseppe Di Matteo. È una storia che ci interroga tutti, da qualunque punto di vista la si guardi.
Ma oggi, anziché fermarci alla reazione emotiva o alla sola indignazione, credo sia il momento di fare un passo in più. Se lo Stato ha avuto il coraggio di dare una nuova vita a Brusca, deve avere l’umiltà di riparare anche chi non ha un potere negoziale come quello di un ex capomafia.
La legge ha fatto il suo corso. L’uomo della strage di Capaci ha scontato la pena prevista dall’ordinamento, ha collaborato con la giustizia, e ha ottenuto i benefici previsti. Possiamo discutere se le norme vadano riviste, certo. Ma c’è un’altra riflessione ancora più profonda da fare, che riguarda il nostro modo di intendere la giustizia: punitiva o trasformativa? Statica o capace di evolversi?
È tempo di parlare seriamente di Giustizia Riparativa.
Questa visione – prevista già dalla nostra normativa e rafforzata dalla riforma Cartabia – non sostituisce la giustizia penale, ma la integra. La completa. È una giustizia che non cerca la vendetta, ma la comprensione; che non cancella il male, ma prova a trasformarlo in occasione di verità, riconciliazione e cambiamento.
La storia italiana recente ci offre un esempio straordinario di coraggio e umanità: quello di Agnese Moro e dei familiari delle vittime del terrorismo, che hanno deciso di incontrare, ascoltare e avviare un percorso profondo di dialogo con alcuni degli ex appartenenti alle Brigate Rosse. Un gesto che non cancella il dolore, ma lo attraversa, lo rende fecondo, lo orienta verso una trasformazione collettiva. Certamente non saró io a parlare del vero dolore delle vittime.
Questi percorsi non assolvono chi ha commesso il male, ma ne chiedono conto in modo più esigente: attraverso l’incontro, la responsabilità, l’ascolto del dolore altrui.
E so di cosa parlo, perché anch’io ho vissuto il carcere. Ma da innocente. Ho passato 909 giorni di ingiusta detenzione, in una cella di quattro passi per due, accusato ingiustamente. anche io posso essere considerato di fatto una vittima, vittima di una falla del sistema giustizia che per un determinato arco temporale ha attraversato la vita distruggendola. Oggi Vittima dei pregiudizi, dei finti moralismi, delle finte amicizie.. Ma preferisco guardare la mia storia con il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto.
Quella cella è diventata la mia gabbia, fisica e mentale. Una ferita che ho trasformato in progetto: “La Gabbia – Quattro Passi per Due” è oggi un percorso educativo per ragazzi e detenuti, un’esperienza concreta di incontro e riflessione, dove il confine tra vittima e autore del reato non è più un muro, ma un punto di contatto umano, profondo, reale.
Nel progetto, i partecipanti costruiscono simbolicamente la gabbia, ci scrivono dentro le loro paure, le loro colpe, le ferite che hanno subito o causato. Poi, insieme, la decostruiscono, aprendo uno spazio di ascolto, responsabilità e cambiamento. È un’esperienza concreta di giustizia riparativa, che ha coinvolto scuole, carceri, palestre, oratori, istituzioni.
E ogni volta accade qualcosa di potente: ci si guarda negli occhi. Si riconosce l’altro. Si accetta la possibilità di cambiare.
Per questo oggi, da cittadino, da ex detenuto ingiustamente, da uomo impegnato quotidianamente per dare dignità e voce a chi non ne ha, sento che i tempi sono maturi.
La Giustizia Riparativa può e deve trovare spazio anche in casi come quello di Brusca. Non per riscrivere il passato, ma per illuminare il futuro. Per dare una possibilità – alle vittime, ai familiari, alla società – di uscire dall’odio e dalla vendetta, senza rinunciare al diritto di verità, memoria e rispetto.
Chiedo alle istituzioni, alla politica, alla magistratura, alla società civile di aprire finalmente un confronto vero, autentico, profondo su questi temi.
Un confronto che non sia solo formale o accademico, ma capace di ascoltare davvero il dolore delle vittime. Di entrare in punta di piedi nelle ferite di chi ha perso un padre, una madre, un figlio, o semplicemente la serenità di vivere.
Quel dolore non si cancella. Io lo so.
Non solo perché ne ho visto gli effetti, ma perché sono stato per 909 giorni in carcere da innocente, chiuso in una cella di due metri per quattro. Lì ho sperimentato cosa significa l’assenza di giustizia, cosa significa essere abbandonati, dimenticati, giudicati prima che ascoltati.
Ci sono dolori che non si raccontano, perché non trovano spazio nelle parole. La mia ingiusta detenzione è stata uno di questi. Un’esperienza che mi ha lacerato dentro, lasciandomi nudo davanti all’indifferenza delle istituzioni, tutte, nessuna esclusa. Quando avevo più bisogno di essere ascoltato, compreso, sostenuto, mi sono trovato solo. Totalmente solo.
Ma proprio da quella solitudine, da quel dolore sordo e profondo, ho scelto di non spegnermi. Ho scelto un percorso diverso: non quello del rancore, ma quello dell’amore. Non quello della vendetta, ma quello dell’etica e della responsabilità.
E lungo questa strada, inaspettatamente, ho incontrato persone meravigliose. Uomini e donne che non hanno voltato lo sguardo, che mi hanno teso la mano, che hanno deciso di camminare con me. Oggi non sono più solo. Viaggiamo insieme, passo dopo passo, per costruire consapevolezza, per seminare rispetto, per trasmettere valori.
È da questo cammino condiviso che nasce tutto quello che sto cercando di realizzare. Non è solo il mio riscatto: è il riscatto possibile di tanti. È un viaggio che ha dentro ferite, sì, ma anche luce.
Non possiamo più pensare alla giustizia come qualcosa di distante, di tecnico, di punitivo e basta. Dobbiamo affiancare al carcere spazi nuovi: spazi di ascolto, di dialogo, di responsabilità vera.
La Giustizia Riparativa non è un sogno buonista: è una realtà prevista dalla legge, praticata già in Italia, e profondamente umana.
Penso al percorso straordinario di Agnese Moro, che ha scelto di incontrare alcuni degli assassini di suo padre. Penso alle tante vittime che desiderano solo che il loro dolore venga ascoltato, riconosciuto, compreso. Penso ai detenuti che, davvero, vogliono cambiare.
Questo cammino difficile è oggi possibile, ed è necessario.
Per noi, per le nostre comunità, per i nostri figli. Per le nuove generazioni che diventeranno adulti, giornalisti, giudici, insegnanti, allenatori, genitori.
Se vogliamo che crescano in una società più giusta, più etica, più umana, dobbiamo avere il coraggio di parlare anche di queste cose. Di non lasciare il dolore inascoltato, né la colpa isolata.
Una giustizia più giusta è possibile. Ma dipende da noi.
Dipende da quanto siamo disposti a metterci in gioco. A guardare le ferite. A fare, davvero, quattro passi insieme. Dentro le nostre gabbie. E fuori, finalmente, verso la libertà.
Marco Sorbara
Ex detenuto ingiustamente – 909 giorni di ingiusta detenzione Fondatore del progetto “La Gabbia – Quattro Passi per Due” Impegnato in progetti sociali, per la legalità e la giustizia riparativa
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