11 Agosto 2022
Toti Salvini (foto LaPresse)
Quando Matteo Salvini parla di energia nucleare in Italia deve tenere ben presente Chernobyl. Ieri e oggi. Il disastro del 1986 è ancora vivo nella memoria di chi, in quei giorni di fine aprile, assistette impotente alle notizie che arrivavano dalla vicina Ucraina, temendo per le radiazioni che seguivano il corso dei venti. Anche pochi mesi fa, quando Vladimir Putin ha dato inizio all’operazione speciale a Kiev, le truppe russe si sono concentrate attorno alle centrali di Chernobyl e Zaporizka, facendo nuovamente pensare al peggio. Ecco perché il leader della Lega e l’intera coalizione di centrodestra, che ha inserito il ritorno al nucleare nel proprio programma elettorale, devono maneggiare l’atomo con cautela. E magari chiedere l’approvazione popolare con un referendum.
“Se vinciamo le elezioni, il primo gennaio del 2023 si tornerà a essere al pari di tutti gli altri Paesi del mondo: nell’arco di sette anni potremmo produrre energia a minor costo rispetto a quella di oggi”, ha detto Salvini. “L’Italia è l’unico dei grandi Paesi al che dice no al nucleare per ideologia, non per scienza”. La sensazione, in realtà, è che il rifiuto all’atomo, più che per ideologia, sia per paura. E torniamo a Chernobyl. Un anno dopo l’incidente al reattore numero 4 dell’impianto ucraino gli italiani si espressero favorevolmente al referendum abrogativo sull’energia nucleare. Da quel momento, nelle quattro centrali presenti sul territorio (Caorso in Emilia-Romagna, Trino Vercellese in Piemonte, Garigliano in Campania e Latina nel Lazio), iniziò un lungo processo di decommissioning, tutt’ora in atto con la supervisione di Sogin, la società partecipata del Mef responsabile dello smantellamento degli impianti. A proposito: ogni volta che un governo affronta il tema del deposito nazionale di scorie nucleare, l’infrastruttura in cui saranno messi in sicurezza i rifiuti radioattivi a bassa e media attività, nei luoghi individuati scoppiano proteste e si formano agguerriti comitati per il No. Per ideologia? Per scienza? Più che altro per la preoccupazione incontrollata per una fonte energetica che nell’immaginario comune, a causa di mancanza di formazione e di informazioni spesso errate e fuorvianti, viene ritenuta più pericolosa che benefica. L’attuale quadro geopolitico, tra Europa dell’Est e Taiwan, non aiuta. Le centrali nucleari, in caso di un eventuale conflitto, vengono considerate come obiettivi sensibili. E una proposta di ritorno alle barre di uranio sul proprio territorio in un momento di massima tensione tra Occidente e Oriente potrebbe scoraggiare ancor di più i cittadini.
Non vale solo per l’Italia. Anche il Giappone, col premier Fumio Kishida, ha annunciato che “adotterà passi concreti per riavviare le centrali nucleari”. Ma i giapponesi, ancor più degli italiani, non hanno dimenticato il disastro di Fukushima del 2011, quando uno tsunami provocò la parziale fusione dei noccioli di tre reattori dell’impianto dell’omonima prefettura. Chernobyl, per gli italiani, era vicina. Fukushima, per i giapponesi, era in casa. Attualmente i reattori attivi sul territorio giapponese sono 10, mentre prima del disastro di undici anni fa erano 54. La strategia di Kishida prevede di riavviare parte delle centrali dormienti per stabilizzare i prezzi dell’energia e per ovviare allo stop dei rifornimenti dalla Russia. Quello di Fukushima è stato l’incidente nucleare più grave verificatosi dopo quello di Cernobyl. Ecco perché il tema dell’atomo, anche in Giappone, è piuttosto delicato. Kishida lo sa. Così com’è al corrente dell’importanza del giudizio dell’opinione pubblica. Per questo ha dichiarato che gli impianti verranno riavviati “solo con una pubblica approvazione”. Quella che Salvini, in caso di affermazione del centrodestra alle urne, dovrà ottenere in Italia.
di Filippo Merli
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