21 Giugno 2025
Inaspettatamente Eugenio Finardi fa il disco definitivo. In tutti i sensi: è l'ultimo, quello che suggella una carriera cinquantennale straordinaria; ed è un disco straordinario, uno dei più riusciti, azzardiamo: forse il migliore, a chiudere il cerchio. Non si snatura, si esalta senza svendere niente di quella poetica musicale per linee dritte, quando ritrova il rock – e Finardi è autenticamente uno dei pochi protagonisti rock, senza finzioni, senza illusioni: Eugenio è autore per tutti, ma anche lui ha il suo blues, metropolitano blues e per capirlo fino in fondo devi essere cresciuto a Milano, la sua città, tra la metà dei '60 e quella degli '80 almeno. Allora capisci quelle onde di suono dritte come le radianti che dal centro fuggono e capisci quegli arrangiamenti sinuosi ma mai sdolcinati, fatti di grappoli di note dure come acini acerbi, e cogli meglio certe parole che vorrebbero essere poetiche nelle loro assonanze ma finiscono più per cercarti con l'urgenza di chi ti affida Tutto. Tutto, come il titolo del disco. Tutto, ogni trasalimento, ogni rabbia e desolazione, ogni perdono e rammarico e catarsi che fa male. Il miracolo lo fa questo Giuvazza, chitarrista e co-produttore Giovanni Maggiore che ancor più e ancor meglio che nel Fibrillante di 11 anni fa riesce a trasfondere i suoni nell'anima di Finardi, a legare Tutto con Tutto, gli anni Settanta della contestazione e della confusione coi nuovi Venti della costernazione e della trascendenza.
Finardi dentro Finardi, l'uomo vissuto dentro il ragazzo furibondo: sono serviti certi filler, campionamenti del passato, ma non è una soluzione ruffiana, ha il senso compiuto di un recupero, come tirare la rete con Tutto quello che è rimasto impigliato in 50 anni di dischi. La voce è strana, ondeggiante, la voce di uno che non ode più, che è sordo quasi completamente, e ce ne sarebbe da dire, ma sapete una cosa? Io stesso m'arrendo, ne ho scritto per anni, ciascuno si trovi le cause che crede. Una voce sciamanica, ove arrancante, ove risolta, quasi pacificata, ma quasi, mai compiutamente, per cantare le prese d'atto, le rese, e qualche barlume di speranza oltre il limite del tempo.
Tutto si compie: gli extraterrestri, si dice nell'incipit, no, non ci sono, l'abbiamo capito, c'è l'intelligenza artificiale che è lo stesso e la puoi vedere come la trappola definitiva o salvezza definitiva, una soluzione amara quale che sia, qualcosa che ti porta via da un mondo che, oggi più di allora, non capisci. Un mondo crudele, fatto di conflitti, di guerre di popoli fratelli che in Asia come in Africa come in Medio Oriente sono fermanente decisi a sterminarsi a vicenda partendo dai figli, dai rispettivi figli. Un mondo che i nostri figli conoscono, girano “da Pechino a Macondo, ma non chiamano mai”: Finardi rassegnato, col lamento del vecchio, chi l'avrebbe detto! Ma pare lui confidi agli amici più stretti, sai? Mi sono stufato di fare Finardi. Comprensibile, ma non è pensabile, non è possibile rinunciare ad essere ciò che si è dato a tanti in cinquant'anni e quello che dai poi ritorna, come in questo disco dove Tutto si compie.
Pentitevi, e l'anatema svela un Eugenio apocalittico e amaro, polemico, arreso. Sciamanico davvero, in un momento che forse è il più commovente, il più devastante dell'opera. Questi figli, che per fortuna non smettono di sognare, come la sua Francesca che sta in California e che s'affaccia qua, a sostenere il vecchio padre, figli che dovranno imparare l'angoscia del tempo, a diventare a loro volta genitori che non si rassegnano ad essere trascurati, passando per la leggerezza inquietante di un aeroplano di carta che vola lontano nella legge di Bernoulli, e ancora non sanno che è allegoria di vita; che forse a modo loro scopriranno la confusione feroce del loro tempo anche se non è più epoca di idee radicali, che inducevano in tentazioni balorde o folli in un tornado di fughe in avanti che poi, a macerie ferme, lasciano il solito trasalimento dell'uomo nella polvere, prostrato a cercare il suo Dio. E allora si abbraccia il Mistero, venga in forma di anatema, di preghiera, di illusione, di fisica quantistica che rende tutto ammissibile ma lo stesso lascia spalancate voragini di domande, destinate alla solita fatale conciliazione: vibrare insieme in sintonia una volta abbandonata l'epica ribelle che ti animava allora, e che non si sa come non si spegne ancora dentro nel suo canto tribale urbano, metropolitano.
Ma io lo so, e tu me lo dici, che la vita è una lunghissima battaglia principalmente contro noi stessi in lotta per l'indipendenza e per un legame tra chi appassisce e chi fiorisce. E allora La mano di uno che sa è testamento di lacrime, elegia senza sconti ma con tanta tenerezza che però non illude, la sua consolazione, se c'è, sta nella verità, struggente e silenziosa come quando scendi dalla Stazione Centrale e t'inoltri in quella cappellina silenziona che pochi conoscono e pochissimi abitano per il tempo di un'attesa.
Cadono tutte le stelle, resta La facoltà dello stupore di una ricerca d'amore senza età. Amore come di eco, amore per l'amore che non verrà oltre, amore per tutto ciò che si è perduto: sì, c'è davvero di che lasciarsi lentamente impazzire nel cercare di trovare il senso del reale e quel dolore grondante dalla tua voce, sai Eugenio, diventa il mio. Tutto ormai ci ferisce, tutto ci fa impazzire noi che i sottoscala della città li conosciamo, noi che i figli di puttana ce li sentiamo nella gola oggi più di allora ma non vogliamo bombardarli più, basta, subentra una stanchezza definitiva come quando San Siro si svuotava la domenica sera, la battaglia prima o poi deve pure finire ed è stata davvero spaventosa questa eterna battaglia che è la vita e non lascia prigionieri a partire da noi, neppure una cellula di nostalgia e le infinite autostrade fanno più paura perché ti senti più fragile, non lo sai se ce la fai a percorrerle, se arrivi al termine della notte. La vita lascia un disco come questo, che ora scuote e più spesso induce lacrime a scorrere nello scorrere del traffico di una metropoli vera o evocata, stordimento di una meraviglia che non abbiamo mai imparato a godere e forse adesso è tardi, forse c'è ancora un lacerto di tempo, chi lo sa, ma ascoltarti oggi più di allora mette un brivido di universo, di troppe sensazioni nel sangue, ed è Tutto.
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