13 Ottobre 2025
In un’Italia che si vanta di attrarre talenti in fuga da conflitti e repressioni, c’è un dettaglio che stride: ai giovani ricercatori palestinesi ammessi con borse di studio viene impedito di portare con sé i propri figli. Una regola, quella sul ricongiungimento familiare, che li obbliga a lasciare i bambini lontani, in territori spesso devastati. Il diritto allo studio, pare, ha limiti che ignorano il cuore.
A rompere il silenzio istituzionale è Liliana Segre. Senatrice a vita, sopravvissuta ad Auschwitz, oggi coscienza etica della Repubblica, Segre ha rilanciato una lettera della scrittrice Widad Tamimi, pubblicata su Il Manifesto. Tema: l’impossibilità per genitori palestinesi – selezionati per studiare in Italia – di portare con sé i figli piccoli. Una norma “tecnica”, si dirà. Ma cosa dice di un Paese l’idea che genitori e figli possano essere separati per burocrazia?
“Mi rivolgo alla sensibilità del ministro Tajani”, scrive Segre. E in quella parola – sensibilità – c’è un intero atto d’accusa contro un sistema che premia il merito solo se lo si esercita in solitudine. L’umanità diventa un ostacolo, i bambini un’appendice trascurabile.
È paradossale che a difendere questi giovani palestinesi sia proprio una donna ebrea. Ma non c’è contraddizione, solo memoria. La memoria di chi ha visto cosa accade quando si mettono le leggi prima delle persone.
Di Aldo Luigi Mancusi
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