10 Settembre 2025
La DSEI, la principale e più grande fiera nel settore della difesa, ha escluso ufficialmente la partecipazione ai funzionari del governo israeliano. Un atto etico e simbolico, doveroso a fronte del genocidio senza fine in corso nella Striscia di Gaza, ma che in realtà nasconde un lato oscuro, ovvero la partecipazione di ben 51 aziende belliche israeliane, a conferma non solo di come l'Unione Europea una volta ancora assuma una posizione ambigua nei confronti di Israele. Ma anche di quanto continui a restare siderale la distanza tra etica e commercio in uno scenario geopolitico dove il giro d'affari delle aziende belliche sia grosso e vada perciò "salvato".
L'esclusione della delegazione di Tel Aviv dall'edizione della Defense and Security Equipment International (DSEI) programmata a Londra dal 9 al 12 settembre, era stata annunciata ufficialmente dal governo britannico. Si tratta della più grande fiera mondiale della difesa, allestita ogni due anni nei Docklands londinesi e che vede la partecipazione di centinaia di aziende da tutto il mondo, con 1600 espositori e 45000 visitatori, esponenti politici inclusi. La mancanza del gruppo politico israeliano dall'evento ha rappresentato un segno simbolico (e dovuto) davanti all'ampliamento delle operazioni di Netanyahu dalla Striscia. Esclusione inevitabilmente condannata dal Ministero della Difesa israeliano e additata come "atto deliberato e deplorevole di discriminazione". "In un momento in cui Israele combatte su più fronti contro estremisti islamici e organizzazioni terroristiche, che minacciano anche l'Occidente e le rotte marittime internazionali - ha dichiarato il Ministero -, questa decisione della Gran Bretagna favorisce gli estremisti, legittima il terrorismo e introduce considerazioni politiche del tutto inappropriate in una fiera professionale del settore difesa". Ma, a ben guardare, le cose sono più complicate perché se escluse sono state le ufficialità diplomatiche, presenti sono le aziende belliche del Paese: 51 in totale, coi 3 colossi Elbit, Rafael e Israel Aerospace Industries in prima fila.
Aziende che si sono presentate sole, o attraverso controllate estere, e che smascherano un mercato di armi nel quale Israele si colloca tra i primi al mondo: a quanto emerge infatti, le esportazioni militari israeliane hanno raggiunto un record di 14,7 miliardi di dollari nel 2024, oltre la metà dei contratti firmati in Europa. Se per decenni l'industria delle armi israeliana è stata nota per l'uzi (un tipo di fucile mitragliatore), oggi gli affari si sono spostati sulla cosiddetta Iron dome ("cupola di ferro"), ovvero il sistema di difesa missilistica a cui si deve gran parte dell'impennata di vendite di armi israeliane all'estero nel 2024. Nonostante Londra abbia sospeso 30 licenze di esportazione verso Israele l'anno scorso, quelle relative agli F-35 sono state mantenute. La partecipazione dei 3 colossi israeliani è notevole: se Elbit porta droni Hermes e le bombe MPR 500, l'azienda Rafael i missili Spike nonché il sistema Iron Dome. L'IAI invece porta radar Green Pine e l'Heron TP. Tutte armi già impiegate per il sistematico sterminio a Gaza e promosse vergognosamente come battle-tested, letteralmente "testate in battaglia" ma realmente "testate sui civili".
La presenza di Israele non è l'unica cosa che ha acceso il dibattito sull'evento controverso. Quale il ruolo del Regno Unito? Oltre agli stand israeliani, anche big come Lockheed Martin e BAE Systems sono coinvolti nella produzione di F-35, mentre il governo annuncia un investimento di 432 milioni di sterline nella "difesa". L'obiettivo è chiaro: aumentare, entro il 2027, la quota di spesa militare sul PIL. Sull'altro versante, la Germania, che se aveva sospeso le forniture a Israele di armamenti e arsenali, ciononostante l'azienda Rafael ha annunciato un contratto da 358 milioni di euro con l'Aeronautica tedesca per la fornitura di tecnologia di puntamento per aerei da combattimento. Non solo. Nel 2023 Israele ha firmato un contratto da 4,3 miliardi di dollari per rifornire la Germania di intercettatori Arrow 3, utili ad abbattere i missili balistici in arrivo. E a questi è seguito il più avanzato Arrow 4 che la Germania, a maggio scorso, si è detta interessata a comprare.
Le proteste non sono mancate davanti a un evento che è solo apparentemente di condanna e che, realmente, alimenta un giro di denaro con molti zero dopo la virgola. Più di 100 organizzazioni hanno partecipato alla campagna "The Big One: Shut DSEI Down" mentre l'Ong Campaign Against Arms Trade ha accusato di "Complicità nel genocidio" l'apparato organizzativo. Dietro alla formalità dunque, un apparato torbido fatto di interessi economici: a Israele le esportazioni di armi non garantiscono solo benefici commerciali ma protezione dall'embargo sulle armi o da altre sanzioni. Ecco dunque il paradosso: Londra e Berlino annunciano limiti alla vendita di armi ad Israele quando è proprio da loro che Israele acquista molti componenti e sistemi bellici. Le decisioni dunque di mettere "un freno" alle armi a Netanyahu non sono altro che "decisioni simboliche", conferma un funzionario israeliano.
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