18 Agosto 2025
L'inchiesta pubblicata dal Guardian il 17 agosto 2025 (quotidiano britannico indipendente che con 4 milioni di visite al sito web e una diffusione mondiale risulta essere una delle testate più lette al mondo) pone una domanda di estrema importanza etica e deontologica: come sia possibile che i media israeliani abbiano completamente ignorato la crisi della fame a Gaza per quasi due anni di guerra? Questa è la questione fondamentale posta dall'inchiesta del Guardian. La recente, seppur limitata, svolta nella copertura mediatica israeliana rappresenta uno dei fenomeni giornalistici più emblematici e problematici del conflitto in corso. Per quasi due anni di guerra nella Striscia di Gaza, le trasmissioni televisive israeliane si sono concentrate quasi esclusivamente sulle vittime israeliane del conflitto: ostaggi, vivi e morti, o ancora tenuti in cattività; soldati uccisi in battaglia, mentre la sofferenza civile a Gaza, dove quasi 2 milioni di persone sono state sfollate e le infrastrutture critiche distrutte, è stata raramente, se non mai, menzionata.
Questa scelta editoriale non è stata casuale, né tantomeno neutra. Come evidenziato da esperti di media e giornalisti, c'era una regola non scritta che teneva i civili palestinesi per lo più fuori dalla vista nella copertura domestica. Solo di recente, di fronte a rapporti di fame di massa nell'enclave e alla crescente indignazione internazionale, le notizie della crisi in peggioramento hanno iniziato a farsi strada.
I dati sulla malnutrizione a Gaza dipingono un quadro devastante che i media israeliani hanno a lungo ignorato. Il Ministero della Salute di Gaza ha dichiarato giovedì scorso che 197 palestinesi sono morti di malnutrizione dal 7 ottobre 2023, inclusi 96 bambini. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha riportato 63 morti correlate alla malnutrizione nel mese di luglio, inclusi 24 bambini sotto i 5 anni.
Questi numeri non sono emersi dal nulla: rappresentano il culmine di una crisi umanitaria che si è aggravata progressivamente. La stragrande maggioranza delle morti è stata registrata a luglio e ora ad agosto, quando la fame di massa ha preso piede dopo quattro mesi di un blocco israeliano quasi totale.
L'assenza di copertura mediatica non è stata un semplice vuoto informativo, ma ha avuto conseguenze concrete sulla percezione pubblica israeliana. Un sondaggio dell'Israel Democracy Institute ha rivelato che più della metà degli intervistati ebrei israeliani non erano "per nulla turbati" dai rapporti di palestinesi che morivano di fame e soffrivano a Gaza.
Questo dato è particolarmente significativo se considerato nel contesto di una narrativa mediatica mainstream in Israele secondo cui la fame diffusa documentata da numerose agenzie umanitarie è "una campagna di fame orchestrata da Hamas". Tale narrazione ha permesso di deresponsabilizzare l'opinione pubblica israeliana rispetto alle conseguenze delle politiche del proprio governo.
Il cambiamento nella copertura mediatica israeliana non è avvenuto spontaneamente, ma è stato il risultato di pressioni internazionali crescenti. L'ondata di immagini e condanne, anche da parte degli alleati di Israele, ha dato ai giornalisti israeliani "una via d'accesso alla storia".
Questa dinamica rivela come i media israeliani abbiano aspettato una "legittimazione" esterna per coprire una crisi umanitaria che si svolgeva letteralmente alle loro porte. I principali notiziari israeliani hanno iniziato a mostrare per la prima volta filmati di civili a Gaza, inclusi uomini a piedi che trasportavano sacchi di cibo dai punti di distribuzione degli aiuti e bambini che urlavano mentre si accalcavano intorno alle poche mense popolari rimaste.
L'analisi di questo fenomeno solleva questioni fondamentali sul ruolo dei media in tempo di guerra. Gli analisti dei media affermano che i canali di notizie hanno dato priorità ai loro ascolti rispetto ai principi giornalistici, attribuendo la decisione al viraggio verso destra di Israele, così come alle minacce del governo per la messa in onda di storie critiche.
La pressione governativa è stata sistematica e documentata. Nel giugno scorso, un comitato legislativo della Knesset ha fatto avanzare un disegno di legge che chiuderebbe la divisione notizie della televisione pubblica israeliana, Kan. L'anno scorso, Netanyahu ha anche approvato una proposta che vieta ai dipendenti governativi di comunicare con o inserire annunci pubblicitari sul giornale di sinistra Haaretz, uno degli unici media a coprire costantemente la crisi umanitaria a Gaza.
La vicenda della copertura mediatica israeliana della fame a Gaza non dovrebbe essere vista solo attraverso il prisma del conflitto israelo-palestinese, ma come un caso di studio sui limiti e le responsabilità del giornalismo in tempi di crisi. La tendenza a privilegiare la narrazione nazionale rispetto alla verità fattuale rappresenta una deriva pericolosa per qualsiasi democrazia.
In conclusione, così come evidenziato dall'inchiesta del Guardian, la tardiva copertura della crisi umanitaria a Gaza da parte dei media israeliani rappresenta un fallimento sistemico che va oltre le semplici scelte editoriali. È il sintomo di un sistema mediatico che ha rinunciato al proprio ruolo di controllo democratico in favore di una funzione di amplificazione della propaganda governativa.
L'articolo del Guardian pone una domanda cruciale nel suo titolo: questo silenzio sta finalmente cambiando? La risposta, purtroppo, sembra essere solo parzialmente positiva. Il fatto che questa copertura sia finalmente emersa, seppur in modo limitato e tardivo, offre uno spiraglio di speranza, ma dimostra anche quanto sia fragile il confine tra informazione e propaganda in contesti di conflitto. Dimostra che la pressione internazionale e la documentazione persistente della realtà possono alla fine penetrare anche le barriere mediatiche più solide.
La lezione che emerge da questa vicenda è chiara: in un mondo interconnesso, il silenzio mediatico su tragedie umanitarie non può durare indefinitamente. La verità, per quanto scomoda, finisce sempre per emergere. La domanda che rimane è se questo processo avverrà in tempo per salvare vite umane o se servirà solo da monito storico per le generazioni future.
La responsabilità dei media non si esaurisce infatti semplicemente nell'informare: include anche il dovere di NON disinformare attraverso l'omissione. Nel caso di Gaza, come documenta accuratamente l'inchiesta del Guardian, questo dovere è stato troppo a lungo disatteso, con conseguenze che si misurano in vite umane perdute e in un'opinione pubblica tenuta deliberatamente all'oscuro della realtà. La domanda che l'articolo solleva - se questo cambiamento sia davvero in atto - rimane aperta e urgente.
di Eugenio Cardi
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