24 Giugno 2025
Xi Jinping e Vladimir Putin. Fonte: Imagoeconomia
In queste ore si parla molto degli effetti degli attacchi israeliani e americani sul programma nucleare iraniano. È falso dire che Teheran si stesse avvicinando alla produzione di una bomba: lo stesso Benjamin Netanyahu ha ammesso, in un’intervista al canale israeliano Channel 14, che la decisione era stata presa “alcuni mesi fa” e che si basava più sul momento propizio per attaccare che su una presunta urgenza delle ultime settimane. Ma la domanda che appassiona di più, appunto, è se i raid siano stati efficaci.
È difficile saperlo, in quanto si spreca la disinformazione da entrambe le parti. Prassi normale, ovviamente, poiché tutti vogliono presentarsi come vincitori. L’amministrazione americana parla di aver “obliterato” il programma nucleare iraniano, ma le valutazioni sono complesse: le foto dai satelliti dicono poco, e quindi ci vorranno settimane o mesi per raccogliere altre informazioni attraverso l’intelligence sul campo, con il rischio di non sapere mai esattamente. Infatti, è probabile che gli iraniani, dopo aver già annunciato di aver spostato molto materiale in tempo per evitare gli attacchi, stiano ancora più attenti a nascondere le attività da qui in avanti.
Ma gli effetti di una guerra preventiva non si possono valutare semplicemente in base all’efficacia o meno dei bombardamenti. La mancanza di una legittimazione su più fronti, dal diritto internazionale ai requisiti costituzionali interni agli Stati Uniti, pesa molto in questa situazione. Il conflitto era decisamente evitabile – è stato Trump a ritirarsi dall’accordo del 2015, che stava funzionando – e quindi, visto dall’alto, sembra che Israele e USA abbiano creato essi stessi le condizioni per giustificare l’attacco, almeno in termini politici, se non formali.
In questo senso, l’aggressione rientra in una serie crescente di azioni militari da parte dei Paesi della NATO che mancano di una legittimazione formale: dal Kosovo nel 1999, all’Iraq nel 2003, alla Libia nel 2011 e a varie altre operazioni minori. In ognuno di questi casi si è proceduto senza preoccuparsi delle decisioni delle Nazioni Unite, e senza poter invocare la necessità di difendersi da un attacco imminente.
Viene comodo dimenticare che, quando noi dell’Occidente ci confrontiamo con i russi o con i cinesi, questi precedenti pesano, eccome. Parliamo di diritto internazionale e di sovranità, di rispetto dell’autodeterminazione; ma quanto risulta credibile la nostra posizione? In Russia, per esempio, il caso del Kosovo viene citato come controesempio rispetto all’Ucraina, visto l’intervento occidentale per staccarlo dalla Serbia. Gli studiosi obiettano che non si possa paragonare direttamente al caso della Crimea, ma per Mosca le implicazioni politiche sono chiare. Come lo sono gli effetti della guerra in Libia, che ha convinto i russi che non si potevano fidare della NATO, spingendoli verso la strada dello scontro.
Con la Cina, le preoccupazioni riguardano le azioni aggressive nel proprio “quartiere”, e soprattutto un possibile intervento per evitare l’allontanamento di Taiwan. Pechino certamente non aspetterà l’ok delle Nazioni Unite, e se l’Occidente va a parlare di rispetto del diritto internazionale, possiamo immaginare quale sarà la risposta.
Nessuno può accusare Donald Trump di essere lungimirante, visto il modo impulsivo in cui agisce, confermato da lui stesso. Ma a tutti i commentatori che vogliono festeggiare il successo degli attacchi contro gli impianti nucleari iraniani, bisogna porre una domanda: avete pensato a cosa significa questa guerra per il futuro delle relazioni globali? Oggi siamo un passo – grosso – più vicino a uno scontro mondiale tra due grandi blocchi, in cui tutti gli appelli al diritto internazionale lasceranno il tempo che trovano.
di Andrew Spannaus
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