26 Agosto 2025
Scuola (fonte foto Lapresse)
La tendenza resta sempre la stessa: arriva puntuale, ascolta la lezione, prendi appunti, rispondi alle domande come ti viene richiesto e, al momento giusto, eccelli nel compito.
Non importa a quale generazione si appartenga: le storie di ogni studente hanno più o meno la stessa cadenza. E ogni volta, il talento non si misura con la valutazione scolastica.
Se dovessi partire soltanto dalla mia esperienza personale nella piccola scuola media di cui sono originaria, ci sarebbe da ridere. Ma una testimonianza, per quanto vissuta, non fa la regola.
Nel tempo, grazie al career coaching, ho osservato come ciò che da ragazza mi sembrava un’anomalia fosse in realtà un modello diffuso. Ho dialogato con ragazzi brillanti, capaci di vedere più lontano dei loro coetanei, dotati di sensibilità e intelligenza affermativa.
Eppure, da ciascuno ho percepito la stessa mortificazione a cui anch’io ero stata sottoposta.
La scuola italiana non è nata per proteggere i talenti.
Questo è il punto.
Al contrario, ciò che conta è troppo spesso la capacità mnemonica di ripetere le parole del docente e guadagnarsi la sua simpatia. Fin troppo spesso, chi ricopre il ruolo di insegnante — e ha dunque una responsabilità enorme, forse la più grande verso un giovane individuo — manca di occhio critico.
Diventa così un burocrate dell’apparato pubblico, impegnato a testare la generazione sottoposta a esercizi nozionistici di base, raramente stimolanti e quasi mai capaci di accendere un pensiero autonomo.
Qualcuno potrebbe ribattere che, nonostante tutto, la scuola italiana garantisce ancora una formazione di qualità superiore a quella di altri Paesi europei. Sarebbe difficile il contrario, considerando il patrimonio culturale che ci circonda: storia, letteratura, arte. Se Montesquieu aveva ragione sulla teoria dei climi, vale lo stesso per la scuola italiana, che vive ancora, seppur traballante, di un riflesso socio-culturale imponente.
Ma non basta. Perché qui sfugge il vero compito dell’insegnante.
Non è solo trasmettere nozioni: il fine ultimo è la comprensione, l’applicazione e la capacità di mettere in dubbio ciò che si è letto o ascoltato.
Molti professori evitano questo passaggio, giudicandolo un extra superfluo, persino una perdita di tempo. Così, ossessionati dal terminare lunghi (e spesso inutili) programmi di studio, smarriscono l’obiettivo autentico della formazione. È in questo circolo ristretto che il talento soffoca.
Se sei bravo in qualcosa, non emergerà mai tra le lezioni standard di un docente stanco e spazientito.
Lo scoprirai solo in quei rari momenti “fuori traccia”, quando ti viene chiesto di applicare ciò che sai e, magari, vivere un’epifania su te stesso. La scuola dovrebbe servire a questo: a rivelare ciò che sei. Non a trasformarsi in una mercificazione di valutazioni molto spesso scorrette e compiute con poca metodicità.
In effetti, se questo resta il ruolo dell’insegnante, una ripetizione annoiata di temi e letture soporifere di pagine, tanto vale assegnare il lavoro a un’intelligenza artificiale: perlomeno si eviteranno favoritismi e si salveranno studenti talentuosi e quelli meno geniali che, crescendo con certi maestri, resteranno delusi nella vita reale nello scoprirsi assolutamente normali.
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