30 Marzo 2021
Polizia (Fonte LaPresse)
Può una persona macchiatasi di tre omicidi passare al massimo 16 anni di carcere? In un Paese dove legge fa rima con giustizia così non dovrebbe essere. Ma in Italia sì. E’ la storia di Adam Kabobo, il picconatore di colore impazzito che all’alba dell’11 maggio 2013 seminò morte e paura tra le vie del quartiere Niguarda, a Milano. Ma, soprattutto, è la storia di Alessandro Carolè, Ermanno Masini e Daniele Carella, massacrati a pochi passi da casa. Per la giustizia italiana le loro vite valgono poco più di sei anni ciascuna.
Il ghanese è stato condannato, con sentenza definitiva, a 20 anni di reclusione, grazie a quella follia del rito abbreviato e degli sconti di pena relativi, che per omicidi particolarmente efferati probabilmente dovrebbe essere eliminato. Come riportato sulle pagine de il giornale.it da Andrea Masini, figlio del pensionato 64enne massacrato ed ucciso da Kabobo: “Stiamo parlando di circa 6 anni e mezzo di carcere per ciascun omicidio commesso. Il problema è che, tra ulteriori sconti e premi di cui potrebbe beneficiare, rischia di farsi non più di 16 anni di carcere. Anzi, il mio avvocato ha fatto un calcolo a spanne di circa 11/12 anni. È assurdo pensare che una persona possa scontare così poco per 3 omicidi e 4 tentati omicidi. In un altro Paese avrebbe avuto l'ergastolo. Se fosse stato un cittadino italiano, forse sarebbe finita in un altro modo".
Come per molti stranieri arrivati in Italia in modo irregolare, fino alla famosa mattina della follia omicida, della vita precedente del “picconatore” si conosce solo quello che lui stesso ha raccontato agli esperti che ha incontrato in carcere. Da quanto da lui dichiarato sarebbe nato nel 1982, anche se questa informazione è già stata confutata, in un piccolo villaggio di Wa, Lora. Persa la famiglia in circostanze poco note Adam Kabobo, ancora adolescente, si sposta di città in città: lavora come bracciante agricolo, poi tre anni da gelataio. Si trasferisce in Nigeria, per poi arrivare in Libia, ed imbarcarsi per Lampedusa nel 2011. Ospitato prima in un centro di accoglienza viene, poi, trasferito a Bari. Poco dopo è protagonista degli scontri fuori dal Centro di accoglienza, fermato viene condotto nel carcere di Lecce, dove gli vengono riconosciuti disturbi di senso percezione e consigliato di assumere 20 gocce, poi divenute 30, di Haldol, un antidelirante. Nonostante la follia riconosciuta, sfociata nella distruzioni di televisori come ordinato dalle voci che sentiva in testa, ed un tentativo di suicidio, nell’ottobre 2012 viene scarcerato e lasciato libero di andare dove vuole, fino all’11 maggio 2013, quando ammazza tre persone e prova a fare altrettanto con altre quattro.
Alle 4 della mattina dell’11 maggio, Kabobo sta passeggiando per il quartiere Niguarda in preda alle voci che si fanno sempre più insistenti, gli dicono di uccidere i bianchi che l’hanno costretto ad una vita di stenti e vagabondaggio. Decide così di armarsi di spranga e cominciare il suo massacro. La prima vittima la incrocia in via Terrugia: si chiama Andrea Canfora, è un giovane dipendente di un supermercato di soli 24 anni. Il ragazzo sta rincasando è viene aggredito dallo straniero: riesce a difendersi e nella colluttazione rimedia “solo” un braccio spezzato. Kabobo, poi,si sposta in via Hermada: il suo obiettivo, questa volta, è Giuseppe Quatela, a spasso con il suo cane, che interviene in difesa del padrone e scaccia l’aggressore. Successivamente attacca un operaio di 50 anni, Francesco Nigro, e prova a farlo con Antonio Morisco, ultima vittima a sopravvivere. Nel frattempo il ghanese ha cambiato arma: abbandona la spranga e di munisce di un piccone recuperato in un cantiere edile. Sono le 5.45, Kabobo è in giro quasi da due ore, ha aggredito numerose persone ma di forze dell’ordine ancora non se ne vedono. Così come è stato lasciato libero di girare ora lo è di uccidere. In meno di un’ora ammazza tre persone. Il primo è un pensionato bolognese, Ermanno Masini, 64 anni: lo incontra nel parco di via Adriatico. Due colpi secchi: uno alla testa, l’altro al ventre. L’uomo viene lasciato a morire dissanguato il mezzo all’area verde, lo ritroveranno solo alle 6.20 del mattino, gravemente ferito. A nulla serve il ricovero: muore dopo due giorni di agonia.
L’extracomunitario, ormai in prede ad una follia omicida difficilmente frenabile, raggiunge poi piazza Belloveso il bar “Del Rosso”, ai tavolini c’è Alessandro Maria Carolè, 40 anni, ignaro di stare vivendo gli ultimi secondi di vita. Kabobo lo vede e non gli lascia scampo: un’aggressione feroce ed una picconata diritta alla testa. La vittima muore su colpo. L’ultimo è un ragazzino, Daniele Carella, di soli 21 anni: sta consegnando i giornali in via Moterotondo, in compagnia del padre. L’attacco è veloce e non lascia scampo al ragazzo: quando il padre lo raggiunge non può fare altro che chiamare i soccorsi. Anche lui si spegnerà dopo due giorni. Alle 6.40 la polizia viene raggiunta dalla prima chiamata di intervento e, dopo qualche, difficoltà intercetta lo straniero che, in breve, viene fermato. Con sé ha anche cellulari ed ipod rubati alle vittime. L’uomo inchiodato alle sue responsabilità ed accusato di triplice omicidio, rapina a mano armata e tentato omicidio.
Una volta fermato Kabobo non nega le aggressioni commesse e si giustifica dicendo di sentire delle voci che gli suggeriscono di “fare cose cattive”. Questo il suo racconto davanti agli inquirenti. "Mi si domanda perché ho preso il piccone e colpito con quello le vittime che Lei mi ha indicato e rispondo: non lo so io sento delle voci nella mia testa. Ho iniziato a sentirle quando ero in Libia, prima di venire in Italia, ma allora non capivo bene cosa mi dicevano. Sento le voci quando fumo l'hashish. Due giorni fa non ho fumato hashish prima dei fatti. Sento nella mia testa voci che mi dicono cose cattive. Mi si domanda se abbia ricordi chiari di quello che ho fatto due giorni fa e rispondo che mi ricordo di avere ucciso un uomo, anzi di averne colpiti diversi e quando mi hanno preso mi hanno detto che li avevo uccisi. Quando mi sono svegliato, sentivo 'le cose' in testa allora ho preso dapprima il palo di ferro e quindi il piccone. Sono state le voci a dirmi di prendere la sbarra e di usarla per colpire qualcuno". Dall'incidente probatorio e da perizie psichiatriche successive emergerà che Kabobo è affetto da schizofrenia paranoide, condizione che avrebbe inciso - ma non determinato - sulla sua condotta violenta esplosa nella domenica dell'11 maggio 2013.
Il primo processo si tiene il 15 aprile 2015, con rito abbreviato, che prevede lo sconto di un terzo della pena. L’uomo viene condannato a 20 anni , più altri tre da trascorrere in ospedale giudiziario al termine della pena. Per il Gup Kabobo è capace di intendere e di volere, nonostante i sui avvocati sostengano il contrario chiedendone l’assoluzione per infermità mentale. Il 20 gennaio 2015 la Corte d'Assise d'Appello di Milano conferma la condanna pronunciata in primo grado e secondo grado. Infine il 31 marzo del 2016 la Corte di Cassazione sancisce in via definitiva la pena comminata, ritenendo che al momento dei fatti la sua capacità d'intendere "fosse grandemente scemata ma non totalmente assente", mentre "la capacità di volere era sufficientemente conservata". Per i giudici in pratica ha perso momentaneamente il senno ma non è pazzo.
“Per fortuna gli è stata riconosciuto solo un vizio parziale di mente: la perizia psichiatrica dice chiaramente che Kabobo non è una persona con squilibri mentali tali da giustificare la ferocia con cui ha colpito. Il perito psichiatrico ha fatto un lavoro certosino riuscendo a dimostrare che la condotta antisociale e violenta di Kabobo non ha nulla a che fare con il suo vissuto" ha spiegato Andrea Masini, a il giornale.it. Altri 8 anni gli furono inflitti per i tentati omicidi. Alla pena, come sempre succede in questi casi, è stata aggiunta una provvisionale per il risarcimento dei parenti delle vittime, calcola tra i 50 e i 200mila euro. "Non ho ricevuto neanche un centesimo: al di là della cifra stabilita, che neanche mi interessa a fronte della perdita affettiva, di ben altro valore, non è pensabile che anche su questo lo Stato sia assente. Kabobo risulta nullatenente e allora fine della storia".
E’ lo Stato ad avere deluso le famiglie: "Io non punto il dito contro il primo immigrato che arriva Italia etichettandolo come un 'delinquente' solo perché magari non parla la mia stessa lingua. Però se è un soggetto abituato a entrare ed uscire dal carcere, ci penserei due volte a tenerlo sul territorio. Ma nel nostro Paese questo non accade. Purtroppo in Italia si rincorre solo chi ruba una mela. E poi invece permettiamo che delle persone vengano uccise a caso. Non è possibile, non è concepibile. Ho più volte ripetuto che lo Stato è assente e ancora lo penso. Lo Stato è complice quando si verificano tragedie del genere".
Il 4 dicembre dello scorso anno, la Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui nel novembre del 2019 il gip di Milano aveva riconosciuto la continuazione tra i reati considerati nelle due sentenze di condanna: 42 anni di reclusione, ridotti a 28 per la scelta del rito abbreviato da parte dei legali di Kabobo. "Gli aumenti di pena sono stati determinati in 8 anni di reclusione per ciascuno dei due residui omicidi volontari in 1 anno di reclusione per ciascuno dei tre delitti di rapina aggravata, in 6 anni di reclusione per il delitto di tentato omicidio e in 1 anno di reclusione per l’ulteriore delitto di tentato omicidio" scrive la Cassazione, contestando l’ordinanza del gip: “Ha violato la disposizione che vincola il giudice dell’esecuzione nella determinazione della pena base e degli aumenti di pena per i reati cosiddetti satellite, avendoli commisurati in misura superiore a quella applicata nel giudizio di cognizione". Entro un anno, come spiegato da Francesca Colasuonno, legale di Kabobo, la situazione dovrebbe risolversi, probabilmente con un nuovo sconto per l’assassino.
Nel frattempo Kabobo, rinchiuso ad Opera, in carcere studia e lavora, riceve cure psichiatriche e partecipa a gruppo di recupero. Di qui lo svolgimento di alcuni lavori all'interno del carcere, quali la consegna del vitto agli altri carcerati del 41 bis, il duro regime detentivo che tra le altre restrizione prevede l'isolamento in cella fino a 22 ore al giorno. "Lui rimarrà in cura tutta la vita. Bisogna continuare a tenere sotto controllo il suo stato psicotico. Per quello che può sta continuando di lavorare, studiare e tenersi impegnato" hanno spiegato i suoi legali. Lo Stato perdona ma le famiglie no: "Il perdono? No, mai. Mio padre era una brava persona ed è stato ucciso senza motivo. Come si può perdonare?" ha ribadito Andrea Masini, ricordando il papà.
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