01 Luglio 2025
La chiusura di Squid Game non è soltanto la fine di un fenomeno televisivo globale, ma anche la conclusione di una parabola amara sull’alienazione dell’essere umano in un mondo governato dalla logica del profitto.
Dietro le tute color pastello e i giochi infantili trasformati in strumenti di morte, si cela una realtà che non è così lontana dalla nostra. Il messaggio di fondo – semplice, quasi brutale – è che la disperazione economica può rendere sacrificabile la dignità umana. Ogni concorrente entra nel “gioco” volontariamente, sì, ma perché spinto da un sistema che lo ha già espulso: debiti, sfruttamento, fallimenti. In quel contesto, la libertà di scelta diventa una crudele illusione.
Il vero nemico non è il singolo ricco o il carnefice mascherato, ma un meccanismo capitalistico capace di trasformare la vita stessa in intrattenimento. Gli spettatori elitari che guardano il massacro per divertimento non sono altro che il simbolo esasperato – ma non irrealistico – del voyeurismo moderno: un riflesso di un’economia in cui l’empatia si spegne davanti allo spettacolo.
Proprio nel momento di un possibile riscatto, quando il protagonista rifiuta di imbarcarsi in un nuovo inizio e decide di tornare indietro, Squid Game ci lascia con una domanda scomoda: può un individuo ribellarsi davvero a un sistema che corrompe ogni tentativo di redenzione? La serie non offre risposte facili, e forse è proprio questo il suo merito maggiore.
La terza stagione di Squid Game completa un percorso narrativo che riflette una realtà sociale spaventosamente simile a quella rappresentata nei giochi: alleanze fondate sull’opportunismo, individualismo portato all’estremo, lotte feroci per denaro a discapito degli altri. Ogni azione ha un peso, ogni scelta può segnare irrimediabilmente il destino di chi ci sta accanto.
Il “Gioco delle Torri” ne è l’emblema: una simulazione in miniatura di una società che, di fronte al potere decisionale, mostra il suo volto più avido e autodistruttivo. Avrebbero potuto vincere in sei, ma alla fine ne resta soltanto uno. Una metafora amara dell’individualismo che divora tutto, lasciando solo un barlume di speranza nelle generazioni future.
Il gioco “Chiavi e Coltelli” — forse il più crudo della stagione — mette i partecipanti di fronte a una scelta tra cooperazione e sopraffazione. La maggior parte sceglie la seconda, convinta che la forza sia la via più sicura. Eppure, proprio i pochi che hanno collaborato sono riusciti a salvarsi, mostrando che la solidarietà può ancora avere un valore, anche in un contesto ostile.
In sottofondo, si insinua un’altra critica, quasi satirica: i VIP che assistono impassibili agli orrori sono lo specchio di noi stessi. Spettatori passivi di un mondo in crisi, troppo spesso incapaci di empatia, guardiamo la sofferenza altrui come se fosse uno spettacolo lontano, che non ci riguarda.
Il protagonista, 456, rappresenta ciò che resta dell’umanità in un mondo che tende a corroderla. Anche lui è stato inesorabilmente trasformato dalla brutalità del sistema, ma resta in lui una luce: la consapevolezza che non tutto è perduto, che un’altra via è possibile. L’importante è non smettere mai di cercarla.
L’intera dinamica di Squid Game ci restituisce un mondo dominato dalla corruzione e dalla malsana e penosa lotta al potere, senza scrupoli né eccezioni, fatta esclusione per qualche minuscola rarità (pensiamo alla madre Geum-ja o a Hyun-ju, la donna transgender che diviene una vera e propria eroina combattiva).
Il protagonista super espressivo Gi-hun, il concorrente numero 456, incarna l’umanità residua, la decenza che lotta disperatamente per rovesciare le leggi spietate del mercato e le sue crudeltà. È una parentesi fragile e profondamente umana in mezzo alla disumanizzazione sistemica, che ci porta a empatizzare con lui quasi per osmosi. Ma quel barlume di speranza viene presto rinnegato: Gi-hun, come tutti coloro che cercano invano di sovvertire le regole del potere, finisce sconfitto, travolto da una realtà che non lascia scampo.
L’umanità, sembra dirci il finale, non riesce a sfuggire alle implacabili logiche di dominio. Le forze che governano il gioco – e la società – restano intatte, perpetuandosi di generazione in generazione. È una sfida quasi illusoria quella che Gi-hun tenta fino all’ultimo, sospendendo perfino la risposta alla domanda cruciale del Front Man: “Credi ancora nella gente?”
Il finale è crudo, tagliente, quasi violento nella sua verità: il mondo va a rotoli, e fermarlo appare impossibile. Eppure, in mezzo alla rovina, qualcosa si muove. La speranza si ostina a sopravvivere – anche quando il “cattivo” sembra voler tendere la mano al suo stesso nemico, riconoscendosi in lui come vittima dello stesso mondo spietato, costruito su misura per l'intrattenimento dei ricchi e il sacrificio dei disperati.
“Non siamo cavalli. Siamo uomini.” Una frase semplice, ma capace di spiazzare. E forse l’unico atto di resistenza rimasto.
Cosa siamo capaci di fare per la nostra dignità e per chi amiamo quando il mondo che avevamo tanto glorificato ci gira le spalle?
Domanda che apre interessanti riflessioni.
In un mondo attuale che tende al collasso provocato dalla stessa sete di potere, non poteva attualizzarsi serie tv più degna e funesta. Di sicuro ne sentiremo parlare ancora a lungo.
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