10 Marzo 2024
Mentre scriccioli al burro fuso come Sangiovanni e mr Rain annunciano un non così clamoroso ritiro dalle scene e dalle scenette dopo un giro di giostra, Renato Zero a 73 anni esalta e si esalta sul palco, dice: “La mia vera casa è qui”. Lo ha sempre detto. Fa dischi da mezzo secolo ma si esibisce da un decennio prima, quando “bamboretto”, come direbbe il suo amico Beppino, sgambettava al Piper nei Collettoni e Collettine di Rita Pavone. Ha fatto veramente di tutto: il ballerino, il performer, l’attore, il teatrante, il produttore, 40 album, altrettanti tour, l’ultimo attualmente gira tra Firenze e Roma, poi in estate Napoli e Bari. Altro che depressione. La depressione, quella vera, Renato l’ha conosciuta, l’ha cantata con inaudita lealtà, non ha nascosto niente, non il suo orgoglio, non le lacrime, mai la sua indistruttibile fragilità: così si costruisce un rapporto unico con il pubblico: ho fatto un test, se in qualsiasi conversazione, di qualunque contesto, con qualsivoglia interlocutore, butto là il nome di Renato, nessuno vi chiede mai: Renato chi? Tutti danno per scontato che Renato è quello lì, lo Zero unico e solo. Non c’è uno in Italia che non lo conosca. Ed è quanto lui doveva e voleva fare della sua vita.
Perché dietro uno Zero c’è una fatica umana che moltiplica quella artistica, già massacrante – pochi hanno prodotto tanto in una carriera. Renato è un caso umano davvero, umanissimo per quel suo stendere ponti col pretesto dei dischi: se ti dice Ti vivrò accanto, se ti assicura: io non ti mollo un attimo, credetemi sulla parola che lo fa. Specie se stai attraversando il grande mare della paura, della sofferenza, della crisi. Quando ti comporti così, vivi la tua missione: essere raggiungibile vuol dire raggiungere, saranno migliaia a scaricargli addosso le loro tragedie, vere o immaginarie che siano. Lui non si nega. Certo arriva dove può, delega se mai la sua arte, ma Zero non è tipo da separarla dalla vita: semplicemente, è una delle poche cose che non è in grado di fare, e non la sa fare perché non gli va. La genialità contempla un margine d’infantilismo incorreggibile. Adesso ha voluto tirar fuori un altro disco, Autoritratto, molto, molto bello, in cui parla di sé ma in modo diverso: tra consapevolezza che i giochi bene o male sono fatti, che padre Tempo ha fatto il suo, e la smania di non ancora dargliela vinta, “voglio vedere quanto e come reggo ancora davanti a un sipario”. Siamo sputtanati in eterno questi social, questi youtube che ti ricattano, ti tengono per le palle: ma li benedicono, ogni tanto, gli impediti e i malati: forse non è mai stato tanto carismatico, tanto padrone di sé e sembra anche intrigarsi di più. Ha scelto, da artista che si consacra al pubblico ma alle sue condizioni, che sanno essere all’occorrenza dispettose, una scaletta spiazzante, piena di brani non così prepotenti: l’ha fatto per ottimi motivi, per dire io sono per voi ma non sono vostro, per avvertire, anche questi episodi meritano un altro giro, per divertirsi con qualcosa di nuovo, per dire chiaro in faccia: no, questi non sono pezzi minori, il mio canzoniere non ha capitoli minori.
Me lo ricordo nella decade horribilis, quando inspiegabilmente perse l’onnipotenza del successo: tutte le porte d’improvviso si chiudevano, l’Idolo di colpo caduto, rifiutato e per quali crimini? Non affioravano, lui, col coraggio dell’onestà, non cercava strade facili, sfornava dischi raffinati, ambiziosi, insomma cresceva, facendo i conti con difficoltà inusitate ma senza rinunciare a voler esserci ancora. A investire su di sé. A consegnare nuova qualità a un pubblico di colpo assottigliato. Lì sì che la depressione azzanna, e rischia di annientare. Altro che i virgulti stanchi dopo quattro passaggi su Spotify. Sarà che questi non stagionano in una casa discografica ma vengono sparati fuori dai talent, dai social e al primo refolo, sbarellano. Non sono artisti, sono influencer del cazzo. Ma più fragili del cazzo.
Me lo ricordo, dicevo, dicevamo: ma dove la trova la forza di tornare ancora, di tornare sempre? Nessuno ci credeva, salvo lui, ma nel 1993 Renato Zero riconquistava il posto suo - anche i due Sanremo attraversati, li conquistò da protagonista assoluto e indisponibile a mercanteggiamenti, poi alcune scelte manageriali indovinate (quando ci vogliono, ci vogliono, e non è solo questione di affari) gli avrebbero riportato uno status nuovamente esagerato ma dalla pelle diversa: l’ultraquarantenne Renatino, segnato da fantasmi affrontati e sconfitti, ormai aveva imparato come dosare l’innata generosità esistenziale col sacrosanto diritto-dovere di preservarsi. Crescere nel successo implica una dimensione più organizzata, vuol dire concedersi anche a interlocutori forse non così gradevoli, o graditi, ma fai tutto per qualcosa che non ha solo la banca come orizzonte, è sempre il discorso dell’essere raggiungibili, per nutrirsi di chi ti fagocita. A un certo punto Zero si è votato all’autoproduzione, decidendo in totale autonomia come, cosa, quando e quanto realizzare. E non mi romperete più i coglioni. Non che sia mai stato tipo malleabile, manovrabile, neanche nelle difficoltà. L’orgoglio di questo ragazzo è incredibile.
Oggi, sotto un copricapo a nido d’aquila sconvolto che farebbe impazzire i giovani Rod Stewart e Ronnie Wood, canta come chi chiude il cerchio e lo sa: una tecnica, una esperienza sconfinate, ma recuperando certi lampi, scatti d’adolescente, quando sul palco incarnava il maggior fenomeno rock, pericoloso davvero, che l’Italia possa mai ricordare. Doveva essere abbastanza complicato, e a tratti terrificante, doverci a che fare negli anni incatenati in “Ciao, Nì”, il primo e più lungo videoclip della storia, dove tanto per cambiare si riduceva come l’Uomo Nudo di Simenon – tutto per la folla ma nessun alibi alla follia, a quella tenerezza selvaggia, a quella polluzione di talento che spargeva da ogni parte come i batuffoli della primavera. E già allora gli scrivevano matti, lunatici, depravati, “sono un aspirante cantante pornografico, fammi entrare”. Credo sia difficile, oggi, trovarselo di fronte Renato, però non tanto per il mito, per il successo, per la carriera carsica, picchi, inabissamenti, ritorni, luci torride, gelide rapide… E’ che per quanto tu abbia vissuto, ti trovi lì uno che ha vissuto cento, mille volte più di te e sarebbe difficile colpirlo, stupirlo. Che gli racconti mai? Credo non ci sia cosa al mondo che non conosca, che non abbia vissuto, e senza sconti. L’Uomo Nudo, avvolto nella sua coriacea a umanità a brandelli. Ma non ho mai visto un simile crociato della vita. La canta e non c’è retorica, lui è in guerra anche per te. Immagino quale sofferenza sia quando la vita si arrende, lascia il posto alla morte che gli porta via qualcuno. Certi uomini non soffrono come gli altri. Ma puoi star certo che te lo ritroverai ancora davanti, in un teatro, a cantarti: “Vita, bellissima e spietata, hai scelto la mia strada e io l’ho percorsa accanto a te”, perché “Io sono un avventuriero, ma che meta avevo?”. E ce la cuciamo addosso quella voce, crediamo che ci spetti e non ci abbandonerà mai.
Ha detto che vuole sparire, forse fra tre o quattro anni, “in modo discreto”: a vederlo lassù, ancora così Zero, c’è da sperare ci ripensi; se si concede gli 80, dopo avere raggiunto lo stato di chi non ha più niente da dimostrare, neanche a se stesso (cosa che sospetto gli dia anche un po’ fastidio), arriverà al livello supremo di chi, come i Rolling Stones, ha superato il proprio mito raggiungendo il Tempo “che non aspetta nessuno” ma per certi Artisti della vita ha rispetto, concede eccezioni. Padre Tempo lo sa quando ha per le mani qualcuno, e sono così rari, che ha saputo indossare mille facce, ma, sotto, il volto rimane lo stesso. Puoi inondarlo di vita quanto vuoi, resta lo stesso.
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