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Paul Schrader (Taxi Driver): "Gli Oscar distrutti dal woke"

Lo sceneggiatore e regista ha ragione: la cerimonia hollywoodiana è grottesca. Ma dietro le istanze fondamentaliste, spunta sempre la solita religione universale: quella del soldo.

17 Marzo 2023

La statuetta dell'Oscar

“Woke” tecnicamente vuol dire svegliarsi, mi sono svegliato, mi sono riscosso, la Bella Addormentata ha capito, ne è uscita; nella pratica è tutto il contrario, è la via di fuga nel sogno, nell'ideale che si nega la realtà. Ogni giorno un matto o fanatico o semplicemente esibizionista si inventa che il processo autocensorio dell'Occidente non basta e trova un nuovo bersaglio da puntare, di preferenza un'opera della cultura alta o dello spettacolo popolare. In marzo nel mirino ci sono gli Oscar, rito pubblicitario con cui Hollywood celebra se stessa ma risucchiato da anni in un vortice sempre più demenziale e spietato. Dice su Twitter Paul Schrader, sceneggiatore di Taxi Driver, una vita nel Cinema, che non se ne può più, che il fondamentalismo woke sta rovinando gli Oscar. Naturalmente la mafia politicamente corretta parte subito coi suoi pizzini, con le teste di cavallo virtuali sì che lo sceneggiatore e regista si affretta a rimuovere il contenuto, a censurarsi. Ma quello che sostiene resta e nessuno può smentirlo: siamo al ridicolo se l'Ampas, che è quella che assegna i premi, dirama un paranoico manuale d'istruzioni che ricorda il nostro caro vecchio Cencelli per le nomiche politiche nella prima repubblica, e anche nelle seguenti: per ogni film, “almeno un protagonista” deve essere di un gruppo sottorappresentato. Chi li decide i gruppi sottorappresentati: non si sa ma siccome vale tutto eccoli qua: asiatici, ispanici, latinos, afro, indigeni, nativi, dell'Alaska, del Pacifico, della calotta polare, esquimesi, hawaiani, mediorientali, maghrebini eccetera. Facevano prima a dire: tutti tranne gli occidentali bianchi tra i quali gli italiani, che dove vanno sono minoranze del genere terrone ma chissà perché nessuno li tutela. Forse perché, nel tempo, hanno imparato a tutelarsi da soli con la mafia.

È un delirio, ma chi lo ha stabilito? Va' un po' a capire: tutti e nessuno, per dire quel coacervo di forze, di presidianti le istituzioni culturali e pubblicitarie che dettano l'agenda sociopolitica. I grandi complottari scomodano le Fabian Society, i panfili Britannia, le Agende, i grandi distopici Da Orwelle a Huxley, i grandi devianti, Malthus e Silicon Valley, Sant'Egidio e Scientology, élite e Finanza, e a pescare nel mazzo qualcosa in mano resta sempre, a sparare nel mucchio qualcosa per forza cogli, ma nessuno sa poi spiegare davvero un Alzheimer collettivo che divora la propria mente sociale, che arriva alle colonne d'Ercole del grottesco e tranquillamente le oltrepassa. Sempre agli Oscar hanno deciso che dall'anno prossimo andranno bandite le promozioni “di genere”, basta con la statuetta al miglior attore la miglior attrice protagonista e non, sono tutte “persone umane”, come si dice, e meritano il personaggio, non a caso asessuato, liscio, per come si sentono quella sera, in quel momento. Poi può capitare che un attore sopra le righe, magari strafatto, pigli a ceffoni un presentatore ossessionato dalla moglie, il trionfo del sessismo ruspante, terrone, ma basta liquidare la scenetta poco edificante attribuendola ai rigurgiti della classe maschia bianca. Anche se le star erano tutte nere.

La verità, come accade, sta altrove, sta nell'imbarazzo del vivere e vivere male: questi dell'Oscar si ritrovano in crisi per carenza di minoranze ovvero tutti sono tutto e il contrario di tutto e a questo punto non si riesce a capire quali minoranze, questa volta sessuali, resterebbero da tutelare, posto che il woke impone un polisessismo, più che non binario, da scambio ferroviario: l'unico ostinatamente fermo all'identità sessuale con cui nacque, 92 anni fa, è il vecchio Clint Eastwood. L'unico da tutelare è lui, reprobo impenitente che ancora si ostina a ragionare e che, come il Popeye dei cartoon, potrebbe dire, osservandosi allo specchio: io sono quello che sono e soltanto quello che sono. Ma, attenzione, quando Schrader osserva che gli Oscar stanno in crisi, si riferisce agli ascolti, dunque agli sponsor, ai diritti televisivi, dietro le istanze più fondamentaliste del politicamente corretto stanno sempre i calcoli, sta la religione assoluta e definitiva del soldo.

La Grande Inclusione comporta l'estrema confusione dell'indistinto assoluto e qualche esclusione necessaria ma dalla enorme coda di paglia: a tracciare i confini sconfinati del woke non si sa bene chi sia, ma di preferenza sono gli eredi del predominio culturale bianco che fingono di non volerlo più; sono i grandi columnist, i mandarini della cultura e dello spettacolo, dell'informazione e dell'industria che cooptano qualche nero, qualche esotico emergente tanto per darsi una parvenza di ecumenismo, di copertura etica. Sono loro a decidere che quelli come loro vanno estromessi per lasciar spazio ad altri gruppi etnici, sessuali, sociali o culturali, una volta si sarebbe detto classi ma il post marxismo preferisce glissare, cacciato dalla porta della storia punta a rientrare dalle sue mille finestre con sembianze più morbide e più ambigue. Alla fine è sempre la solita storia: un gruppo di potere decide e, fingendo di praticare un'autocritica delirante, finisce per confermare se stesso. Intanto gli Oscar sono rappresentazione sempre meno sacra, sempre più autoreferenziale, c'è un libro del critico del new York Times, Michael Schulman, che ne mette in ridicolo la supponenza e lo squallore, la vanagloria e l'ipocrisia di tutti i protagonisti dalla fondazione di Hollywood. In tanta mediocrità, un guizzo d'orgoglio: alla cerimonia, per la seconda volta di fila, non hanno voluto quel guitto di Zelensky. Perfino nel cuore del circo più rutilante d'America, debbono essersi convinti che quel pagliaccio era troppo. Insomma si sono svegliati.

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