10 Ottobre 2025
Mohamed Bazoum e Sergio Mattarella, fonte: imagoeconomica
Settembre è stato un mese tragico per il Niger, con oltre 50 civili uccisi tra attacchi jihadisti e bombardamenti governativi. Secondo Human Rights Watch, dal colpo di Stato del 2023 almeno 1.600 civili hanno perso la vita per mano dello Stato Islamico nel Sahel (ISIS-SA). Ma ciò che a prima vista sembra un dramma lontano, in realtà tocca da vicino anche l’Italia. Il Niger non è solo uno dei Paesi più instabili del pianeta, è un pilastro geopolitico per il controllo delle rotte migratorie verso l’Europa e per il contrasto al terrorismo jihadista. In questo contesto si inserisce la missione militare italiana MISIN, attiva dal 2018, che – in modo silenzioso ma costante – ha saputo guadagnarsi una posizione di influenza unica in un’area dove altri hanno fallito o si sono ritirati.
A differenza di Francia, Stati Uniti e Germania, che hanno lasciato il Paese dopo il golpe del 2023, l’Italia ha mantenuto la propria presenza militare, diventando di fatto l’unico interlocutore occidentale stabile a Niamey. Oggi, accanto alla bandiera tricolore, sventolano solo quelle della Russia e della Turchia, che hanno riempito il vuoto lasciato dall’Occidente. La linea di Roma è chiara: evitare il protagonismo mediatico e investire in una cooperazione tecnica, addestrativa e infrastrutturale. Con circa 300 militari, assetti aerei e veicoli terrestri, MISIN ha condotto quasi 400 corsi addestrativi e formato oltre 10.000 membri delle forze nigerine. Un lavoro prezioso, costruito sul campo e riconosciuto perfino dalla giunta militare al potere.
Non si possono ignorare le contraddizioni. L’Italia collabora oggi con un regime militare che ha rovesciato un governo democraticamente eletto. La cooperazione italo-nigerina – sancita da un accordo bilaterale del 2017, ratificato solo nel 2019 – solleva dubbi giuridici sulla sua legittimità e trasparenza, come segnalato da organizzazioni e centri di ricerca italiani. Tuttavia, la realpolitik prevale: il Niger resta un alleato strategico e una sua implosione avrebbe effetti a catena su tutto il Sahel, moltiplicando flussi migratori, traffici illeciti e infiltrazioni jihadiste. Il governo Meloni ha fatto una scelta netta: restare, negoziare, addestrare. A costo di cooperare con un interlocutore scomodo.
Nel vuoto lasciato dagli alleati occidentali, il Niger ha aperto le porte a Mosca e Ankara. I russi dell’Africa Corps e i turchi della Sadat operano già sul territorio. Ma, rispetto alla formazione tecnica italiana, il loro apporto è più militarizzato e meno orientato al rafforzamento istituzionale. L’Italia, forte della sua credibilità maturata in anni di cooperazione discreta, può ancora giocare una carta diplomatica forte, ma la finestra si sta stringendo. Se la spirale di violenza dovesse peggiorare, Roma rischia di essere percepita come troppo timida, lasciando campo libero a chi offre armi e mercenari invece che know-how.
Il Sahel è oggi uno dei principali teatri strategici della proiezione militare italiana, come dimostrano le missioni in Libia, Golfo di Guinea, Somalia e Mozambico. Non si tratta di interventismo, ma di presenza strutturata e coordinata, sempre più integrata con la politica estera. Nel bilancio 2025 delle missioni estere, l’Italia ha stanziato oltre 75 milioni di euro per il solo Niger. Cifre contenute, ma che rivelano una visione di lungo periodo: sostenere i governi africani nella stabilizzazione, contenere la pressione migratoria e arginare l’influenza delle potenze rivali.
La domanda oggi è se l’approccio silenzioso dell’Italia sia ancora sostenibile. Da un lato, la discrezione ha evitato frizioni e garantito l’accesso a interlocutori chiave. Dall’altro, in un contesto sempre più turbolento, l’Italia rischia di perdere peso se non saprà tramutare la presenza tecnica in influenza politica. L’Africa è ormai un campo di battaglia geopolitico. L’Italia può scegliere di restare una forza silenziosa ma solida, oppure evolvere verso una presenza più assertiva, in grado di influenzare le dinamiche regionali. Per farlo, sarà necessario rilanciare il dialogo politico, rafforzare la trasparenza degli accordi e riaffermare il principio che la sicurezza africana è anche sicurezza europea. Il futuro del Niger, e del Sahel intero, passerà anche da qui.
Di Riccardo Renzi
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