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Integrazione o separazione? Il caso Monfalcone e le macchie d’olio dell’Islam politico che cambiano il volto dell’Europa

A Monfalcone una lista elettorale composta esclusivamente da candidati musulmani riapre il dibattito sull’integrazione. Dalle no-go zones europee all’entrisme islamista, un’analisi sulle derive del multiculturalismo passivo.

27 Giugno 2025

Integrazione o separazione? Il caso Monfalcone e le macchie d’olio dell’Islam politico che cambiano il volto dell’Europa

È un aprile insolitamente mite per le medie stagionali. Fuori dalle scuole, sotto i portici e nei bar del centro, si discute delle liste affisse per le elezioni comunali di Monfalcone, cittadina di confine in provincia di Gorizia che conta poco più di trentamila anime. Quest’anno, tra i candidati in corsa per il seggio comunale, ha spiccato Italia Plurale, una lista guidata da nomi che non suonano familiari alla toponomastica friulana: la capeggia Bou Konate, già assessore comunale, deciso a tentare un’impresa quasi simbolica, diventare sindaco.

Al suo fianco, diciannove candidati. Nessuno di loro ha origini italiane. Tutti di fede musulmana, con una sola donna a rappresentare la componente femminile. Un dato che non è solo anagrafico o demografico, ma politico e culturale.

Ma, adesso, riavvolgiamo il nastro: la lista, che tanto ha fatto discutere nelle settimane passate i vari media nazionali, è arrivata malapena al 3%. Non molto, naturalmente, per essere preso in considerazione dalle logiche elettorali, ma abbastanza per farci domandare che prospettiva potrebbe avere un’iniziativa simile in un’Italia futura, il cui calo demografico è persistente e le quote musulmane, al contrario, in aumento.

Anzitutto, partiamo da un punto fermo: se l’obiettivo è l’integrazione, non può essere perseguito inseguendo la ghettizzazione. Prendiamo questa lista elettorale come simbolo: non tanto per il suo peso numerico, ma per ciò che rappresenta. Far parte di una comunità, di una città, infine di una Nazione, è un processo lungo, complesso, mai scontato, e lo è ancor di più quando si è nati altrove.

Chiunque abbia vissuto almeno una volta da immigrato, come la sottoscritta, sa cosa significa atterrare in un Paese straniero. Il primo gesto, quasi istintivo, è cercare volti simili: compatrioti, culture affini, un pezzo di casa da ricostruire altrove. È umano. Ma è anche pericoloso. Perché rischia di diventare un ritorno al punto di partenza, una chiusura dentro la propria cerchia che esclude tutto ciò che sta fuori. E senza il desiderio di uscire da quella comfort zone, non può esserci integrazione.

Il nodo, il più intricato, resta l’identità. Come il DNA, è unica e quasi impossibile da cambiare. Più il contesto di arrivo è distante da quello d’origine, più quell’identità diventa una corazza. Eppure — e qui sta la sfida — integrare non significa cancellare ciò che si è, ma entrare in relazione con ciò che non si è.

Il problema nasce quando, attorno a sé, si trova una comunità ampia e coesa, che permette di vivere in un Paese straniero senza mai dover davvero incontrarlo. Si vive nel nuovo, ma si resta nel vecchio. Si attraversano città europee, ma senza toccarle. E in questa bolla, le abitudini restano le stesse, i codici pure. Come se il paesaggio attorno non fosse mai cambiato.

Uno dei nodi centrali, e forse più elusi nel dibattito politico mainstream, riguarda la presenza in diverse città europee di vere e proprie “no-go zones”, aree dove la legge dello Stato arretra, e dove si afferma un ordine parallelo, spesso informale ma efficace, basato su codici religiosi e di clan. Non è un’invenzione della destra: lo ha ammesso lo stesso Presidente Macron, nel discorso di Les Mureaux del 2020, quando ha parlato di “contre-sociétés” dove si pratica una forma di separatismo islamista, che sfocia in descolarizzazione, palestre separate per genere, e insegnamento informale di norme contrarie ai valori repubblicani.

In Svezia, a Malmö e Göteborg, la polizia ha ufficialmente classificato oltre 60 quartieri come “aree vulnerabili”, dove è più difficile far rispettare la legge, e dove le bande etniche o religiose esercitano un controllo sociale de facto. In Belgio, a Molenbeek, dopo gli attentati del 2015, il governo ha dovuto ammettere l’esistenza di interi isolati fuori dal radar delle istituzioni. In Francia, il Ministero dell’Interno monitora da anni quartieri come la Seine-Saint-Denis, dove la pressione islamica radicale è tale da scoraggiare attivamente la partecipazione femminile agli spazi pubblici.

E in Italia? Non siamo ancora a quel livello, ma la tendenza è visibile. Quando, come a Monfalcone, una lista politica si forma con una sola donna su diciannove candidati, tutti appartenenti alla stessa comunità, non è solo una questione culturale. È il riflesso di una trasposizione politica di un modello comunitario che, altrove, ha già prodotto esclusione e conflitto.

Ecco perché la domanda sull’integrazione non può più essere elusa: sono veramente integrati i cittadini che scelgono di rappresentarsi solo tra simili? Se l’integrazione si riduce a ottenere documenti, sussidi, o seggi nei consigli comunali senza che cambi nulla nella visione della società, stiamo semplicemente perdendo dei riferimenti.

Man mano che queste macchie d’olio si espandono, raggiungono i centri delle città, ne modificano le abitudini, ne cambiano i toni. E quando la rappresentanza politica cambia, gli effetti iniziano a farsi sentire: non solo nei quartieri, ma nelle agende dei partiti, nei simboli, nel linguaggio stesso della politica.

L’integrazione, per anni, è stata una bandiera agitata dalla sinistra europea, spesso in modo retorico. Troppi partiti hanno parlato di inclusione come se fosse un processo unilaterale: un dovere per i Paesi ospitanti, e mai per chi arriva. Allargare le proprie vedute, certo. Ma anche abbassare il volume della propria identità, nascondere le proprie chiese, smussare i propri principi. Eppure, va ricordata una verità semplice: chi entra in una casa non può riscriverne l’architettura. L’integrazione è anche — inevitabilmente — adattamento. Risponde ad un principio evoluzionistico. Non cancellazione delle origini, ma trasformazione reciproca: chi arriva porta con sé ricchezza, sì, ma è attraverso la lente culturale del Paese ospitante che questa ricchezza può davvero diventare parte di un nuovo racconto comune.

La sinistra ha spesso usato la leva dell’integrazione per costruire consenso, offrendo candidature, posti in lista, visibilità. Ma ora qualcosa si è rotto. Perché quelle stesse comunità non hanno più bisogno della sinistra. E, soprattutto, non sono affatto progressiste.

Nel maggio 2025, il Consiglio di difesa e sicurezza nazionale francese, su mandato del Presidente Macron, ha reso pubblico un rapporto riservato sull’entrisme islamista. Un gruppo di alti funzionari, incaricati già nel gennaio 2024, ha lavorato per oltre un anno raccogliendo testimonianze, documentazione e interviste in dieci dipartimenti francesi e in quattro Paesi europei. Lo scopo era chiaro: fotografare con lucidità la presenza e le strategie della Fratellanza Musulmana in Francia, non più come un fenomeno spirituale o culturale, ma come una rete organizzata con obiettivi politici e sistemici.

Il rapporto denuncia con chiarezza l’esistenza di “écosystèmes locaux” — vere e proprie micro-società radicate in quartieri specifici — dove la vita quotidiana del cittadino musulmano è interamente incorniciata da istituzioni parallele: moschee affiliate, scuole confessionali, centri sociali e associazioni di mutuo aiuto che sostituiscono nei fatti i servizi pubblici.

Questa architettura, apparentemente inoffensiva, si basa però su una strategia di lungo termine: penetrare i livelli locali del potere, consigli municipali, comitati scolastici, enti culturali, per modificare, gradualmente ma strutturalmente, le regole della convivenza repubblicana. Il nome tecnico è entrisme. La finalità: ottenere deroghe, eccezioni, riconoscimenti formali di norme religiose in conflitto con i valori della République. Parità uomo-donna, laicità, educazione critica, libertà religiosa: tutto viene reinterpretato alla luce di una visione teologica che, nel privato, può essere lecita, ma che nel pubblico riscrive il concetto stesso di cittadinanza.

Il caso della rete Musulmans de France, erede dell’UOIF, è emblematico: 139 luoghi di culto ufficialmente affiliati, una sessantina di scuole non contrattualizzate, istituti teologici, predicatori digitali con milioni di follower. Il messaggio, diffuso online e offline, è rigorista, identitario, separativo. Secondo l’Institut Montaigne, il 90% dei contenuti religiosi diffusi tra i giovani musulmani in Francia ha una matrice salafita o islamista.

Dare spazio a queste analisi, oggi, è urgente. Nel nome della tolleranza liberale, abbiamo dimenticato uno dei suoi assunti fondanti, che ogni convivenza si basa anche su confini culturali condivisi, e non solo su diritti astratti. Abbiamo trasformato il tema dell’integrazione in uno slogan intoccabile, e chiunque osi metterne in discussione le modalità viene etichettato come intollerante. Ma il vero errore è proprio questo: aver affidato l’integrazione alla propaganda e al silenzio, come se discutere di fallimenti fosse più grave che subirne le conseguenze.

La realtà è che molti centri di accoglienza in Europa — e in Italia — sono inefficaci, e restituiscono ai Paesi ospitanti individui spaesati, alienati, senza alcun reale contatto con il tessuto sociale. E in questo vuoto si infilano facilmente le reti parallele: comunità etniche religiose ben strutturate, che offrono appartenenza, lingua, protezione, ma che si sottraggono completamente al confronto con la società ospitante. Lo Stato, invece, resta fuori. Invisibile, o indifferente.

A tutto questo si somma la difficoltà economica: gran parte degli immigrati proviene da Paesi a basso reddito, con livelli di istruzione molto bassi. Questo non è solo un problema sociale, è un fattore strutturale di esclusione. Dove c’è povertà, c’è frustrazione. E dove c’è frustrazione, c’è spazio per l’odio. Per le organizzazioni parastatali, i predicatori digitali, i manipolatori professionisti del terrorismo e della radicalizzazione violenta.

Sono macchie d’olio, sì, che si espandono silenziosamente.

Vanessa Combattelli

 

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