13 Giugno 2023
foto @Lapresse
Questo è l’articolo più difficile della mia carriera. E infatti ho rinviato fino all’ultimo il momento di mettermi al computer per scriverlo. Nei giornali, quando si ha sentore della fine di un politico o di un imprenditore, ma anche di un personaggio dello
spettacolo, di solito si preparano i "coccodrilli" - così si chiamano in gergo i pezzi pieni di lacrime e aneddoti - e si conservano in frigorifero, o meglio nel cassetto, pronti per essere scongelati e messi in pagina o online al momento giusto, sia che si
tratti del mattino che della notte fonda. Ma come fai a scrivere un articolo precotto, che non sintetizza la carriera di un uomo di governo o di un grande industriale, ma deve tenere insieme l’uno e l’altro, e soprattutto deve raccontare la storia di un mito, di un uomo che ha cambiato la politica, la televisione, il calcio, la finanza, il linguaggio e perfino le nostre abitudini? Come fai a contenere in una pagina un fenomeno, uno che ha sconfitto tutte le convenzioni e che si diceva certo di essere in grado di battere anche le leggi della natura, di sopravvivere a tutto, agli agguati politici e giudiziari, alle aggressioni fisiche ma anche alle malattie, e il primo a credere che ci sarebbe davvero riuscito era lui stesso?
I giornalisti, di norma, non fanno il tifo per nessuno o per lo meno non dovrebbero farlo, perché da loro ci si aspetta equidistanza: in fondo sono testimoni di fatti che devono riferire senza pregiudizi. Ma io, che berlusconiano nel senso stretto non sono mai stato, in quanto non appartenevo al cerchio magico del Cavaliere, né sono mai stato invitato a villa Certosa o a una cena elegante, l’equidistanza da lui non sono mai riuscito ad averla. Per quanto mi sforzassi di apparire terzo, ogni volta che lo vedevo in tv o impegnato in qualche dibattito, come nella famosa puntata in cui spolverò la sedia dove fino a un istante prima era seduto Marco Travaglio, mi ritrovavo a fare il tifo per lui. Ho fatto il tifo per lui anche nei giorni scorsi, lo ammetto, quando ho saputo che era di nuovo ricoverato in ospedale, dopo gli oltre 40 giorni trascorsi a ridosso della Pasqua. Il presidente dell’Enel, Paolo Scaroni, mi aveva detto di averlo incontrato poche settimane fa ad Arcore e di averlo trovato in forma. Lucido come sempre, pronto a discutere del governo e della guerra, di economia e politica, ma anche di calcio e di altro. A un certo punto il presidente del Milan aveva dovuto dirgli che si era fatto tardi, che forse avrebbe dovuto riposare, ma
Berlusconi non sembrava sentire ragioni. Io avevo parlato con lui il giorno del mio compleanno, un mese fa. Mi aveva chiamato, come faceva tutti gli anni: dove abbia trovato il tempo per dedicare dieci minuti a una telefonata di auguri mentre era in un letto di ospedale non lo so. Ma Silvio Berlusconi era Silvio Berlusconi in tutti i sensi, uno abituato a stupire e soprattutto a sedurti. Non lo faceva solo con le donne, che corteggiava tutte, con un gesto o con una battuta di quella sua galanteria un po’ demodé che a volte imbarazzava. Lo faceva con chiunque avesse davanti, perché il suo obiettivo era conquistarti. Desiderava piacerti, averti come amico, come cliente in principio e come elettore poi. Era un venditore
nato, di cui sentii parlare nei primi anni Ottanta, quando lavoravo a Bergamo. A un evento a cui era stato invitato, un imprenditore se lo trovò davanti e, prima che potesse aprire bocca, Berlusconi lo aveva già travolto di complimenti. "Da
tempo volevo incontrarla: la ammiro per i suoi successi".
Ovviamente non era vero: il Cavaliere si era portato appresso un uomo che gli indicava gli ospiti da agganciare, spifferandogli i traguardi imprenditoriali degli uni e degli altri.
Quando creò Canale 5, investendo dove tutti gli altri, editori compresi, fallivano, capì ciò che nessun altro aveva compreso, ovvero che la pubblicità non era solo un introito possibile, ma anche un taglio dei costi: ogni spot, a prescindere da quanto fosse pagato, era un minuto in meno di programmazione televisiva e dunque un risparmio sulle royalties da pagare per i film mandati in onda. Forte di questa intuizione, si presentò agli industriali proponendo un accordo: una valanga di spot sulla sua rete in cambio di un contratto che assicurasse il pagamento solo se le vendite fossero decollate. Il birrificio a cui si rivolse in pratica non rischiava niente, se non di aumentare il fatturato, cosa che poi avvenne. Le sue tv erano allegre, qualche volta sguaiate, ma di sicuro facevano sognare, sia gli ascoltatori che gli investitori. In questo modo Berlusconi fece soldi a palate, come prima li aveva fatti vendendo case alla periferia del capoluogo lombardo, ma costruendo un quartiere verde circondato da servizi esclusivi che chiamò pomposamente Milano due, destinati ad acquirenti della Milano da bere che volevano vivere sì in una metropoli, ma circondata dalla natura, come in una specie di villaggio turistico. Per anni si sono chiesti da dove venissero le sue fortune, insinuando che dietro ci fosse la mafia e arrivando perfino a sostenere che all’ombra delle stragi delle cosche ci fosse lui. Scemenze giornalistiche e giudiziarie. La realtà è che negli anni del boom, il Cavaliere accumulò una fortuna e come accadeva nella maggior parte delle aziende, in particolare di quelle edili, non tutti i ricavi erano registrati a bilancio. Del resto, se a Gianni Agnelli, campione di glamour amato dai radical chic di sinistra perché si distingueva dalle masse portando l’orologio sopra il polsino e accompagnandosi alle donne più belle, l’Italia ha eretto un monumento di panna montata dimenticando il tesoro miliardario esentasse detenuto all’estero, non si capisce perché l’unico a finire alla gogna avrebbe dovuto essere Berlusconi. Contro di lui hanno intentato una ventina di processi, uno più incredibile dell’altro. L’ultimo è quello che ricordano tutti: non riuscendo a sconfiggerlo alla Camera, la sinistra giudiziaria ha provato a batterlo direttamente in camera da letto. Ricordo quando, 15 anni fa, lo avvisai del pericolo. Eravamo ad Arcore e mentre Alberto Zangrillo, a forza di iniezioni, cercava di fargli passare un doloroso mal di schiena che lo costringeva a letto, gli raccontai che Repubblica aveva sguinzagliato i suoi migliori cronisti per trovare in Campania qualche pettegolezzo su Noemi Letizia. Dalla cronaca politica e giudiziaria eravamo passati a quella rosa. Se prima Ezio Mauro e compagni si indignavano perché qualcuno voleva indagare sulle abitudini sessuali di un presidente degli Stati Uniti democratico poi, essendoci di mezzo Berlusconi, frugare fra le lenzuola del premier per la sinistra era diventato un atto politico. Che cosa sia rimasto di quella stagione, lo si è visto nelle aule di tribunale e - grazie al cielo - lo ha potuto vedere anche lui prima di morire: una raffica di assoluzioni e sentenze che hanno contestato le inchieste alla radice, certificando gli errori e le violazioni degli accusatori. Trent’anni o quasi di processi, una persecuzione che ne ha accompagnato l’intera carriera politica. Mai nessun leader è durato così a lungo, mai nessuno ha sopportato una simile via crucis giudiziaria. Di sé, con un certo orgoglio, diceva che aveva visto passare presidenti, cancellieri e premier, ma nessuno era riuscito a rimanere sulla tolda quanto lui. Nel 1996, quando ero direttore del Te m p o e prima di divenirlo del Giornale, ricordo una riunione a casa di Lino Jannuzzi, con tutti i colonnelli di Forza Italia, quelli che lui aveva portato in Parlamento elevandoli a onorevoli, da giornalisti, professori e semplici professionisti che erano. Timorosi del proprio avvenire, lo davano tutti per spacciato. Anzi, dopo essere stato disarcionato da Umberto Bossi nel ’94 e sconfitto da Romano Prodi nel ’96, erano convinti che il suo futuro fosse nelle patrie galere, dove lo avrebbero spedito al più presto i giudici. L’unica possibilità di salvarsi e salvarci, dicevano i suoi principali collaboratori, era di accordarsi con Massimo D’Alema, all’epoca presidente della commissione bicamerale per le riforme, dargli tutto ciò che il leader dei Ds desiderava e studiare con lui un salvacondotto giudiziario che gli evitasse l’arresto. Finì come sempre, come era iniziata l’avventura di Forza Italia, ovvero con un Cavaliere che fece di testa propria, senza ascoltare i suggerimenti dei consiglieri. Berlusconi buttò all’aria il tavolo delle riforme e cinque anni dopo si riprese il Paese, diventando presidente del Consiglio per la seconda volta. È sempre stato così: ogni volta che hanno provato a darlo per spacciato, lui si è rialzato e ha riconquistato la scena e il governo. Nel 2006, dopo cinque anni a Palazzo Chigi e un’infinità di duelli con gli alleati Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, sia il leader di An che quello dell’Udc erano certi che le elezioni lo avrebbero spedito ai giardinetti. “Che fa, secondo te, se viene sconfitto? Se ne va?”, diceva felice Pierfurby. Dopo averlo logorato per cinque anni, sognavano un’uscita di scena che regalasse a loro l’eredità del centrodestra. Non credevano minimamente alla rimonta. «I voti recuperati? Balle a cui crede soltanto lui», lo sentenziava incattivito Gianfry. Perse per un soffio, 24.000 voti scarsi, sospettando che in Campania ci fossero stati brogli. Lo davano per morto, politicamente è ovvio, anche nel 2007, quando la coppia di parenti serpenti del centrodestra, destinata con Mario Monti a suicidarsi, si preparava a giubilarlo dopo il tentativo di spallata a Prodi. Lui, che gli avversari con cattiveria chiamavano nano, una domenica pomeriggio per imporsi su Fini e Casini salì sul predellino, in piazza San Babila. «Siamo alle comiche finali», commentò il sempre più astioso leader di An. E alla replica di lui, che aveva parlato di parrucconi della politica, l’ex segretario del Msi sdoganato dallo stesso Berlusconi rincarò la dose dicendo che in fatto di parrucchini il Cavaliere era un esperto. In realtà, il finale già scritto era quello di Fini, il quale poche settimane dopo, quando gli spiegarono che senza Silvio il suo partito avrebbe perso un terzo dei voti e sarebbe rimasto fuori dal Senato, si alleò con Berlusconi con la coda fra le gambe, meditando eterna vendetta. A pugnalarlo alle spalle, dopo aver sistemato la casa di Montecarlo nelle mani del cognato, ci riprovò nel 2010 forte della promessa di prenderne il posto a Palazzo Chigi fattagli da Giorgio Napolitano. Gli andò male anche allora, perché il gruppetto di fuoriusciti dal Popolo della libertà non bastò a togliere la fiducia al Berlusconi quater. A mandare a casa Silvio riuscì un colpettino di Stato del solito presidente della Repubblica, in combutta con i poteri forti, le istituzioni finanziarie e, soprattutto, Bruxelles. Salì al Quirinale per rassegnare le dimissioni fra cortei di odiatori di professione che festeggiavano e stappavano bottiglie. Gli stessi che il giorno in cui fu condannato per frode fiscale (processo risibile per chiunque abbia letto gli atti) e cacciato dal Parlamento, pensavano di essersi finalmente liberati di lui. Ovviamente non sapevano con chi avevano a che fare e infatti, in capo a due anni, dopo essere stato condannato ai servizi sociali, pena che espiò aiutando gli ospiti di una casa di riposo, eccolo di nuovo sulla scena, pronto a sottoscrivere il patto del Nazareno. Il resto è storia dei mesi passati e di questi giorni, con il ritorno al Senato, in quel Palazzo che i 5 stelle volevano aprire come una scatola di sardine e nel quale, alla fine, si sono accomodati volentieri, sistemandosi sui comodi scranni dell’aula. Per capire la grandezza di Berlusconi, basti pensare che ha visto passare quattro presidenti della Repubblica, due dei quali eletti per la seconda volta e, oltre a sé stesso, 12 presidenti del Consiglio. Per quasi 30 anni ha guidato il centrodestra, mentre a sinistra si sono succeduti ben 15 segretari. È lui ad aver inventato il bipolarismo, lui ad aver rottamato la vecchia politica e insieme a essa una pletora di vecchi leader o aspiranti tali. Mi sono spesso chiesto come abbia fatto a fare tutto ciò, a costruire un impero economico e un successo politico, trovando il tempo di vincere scudetti e investire nella più moderna banca europea. La risposta che mi sono dato è la seguente: il primo a cui ha venduto il suo sogno di imprenditore e trionfatore è stato lui stesso. Ci credeva talmente tanto che è riuscito a farlo credere anche a noi. Era un magico incantatore di persone, uno straordinario affabulatore di platee, che mentre raccontava barzellette e intratteneva gli ospiti non perdeva di vista un dettaglio e non dimenticava nemmeno l’ultimo dei suoi collaboratori. Ho in mente due ricordi. Il primo riguarda una visita che feci ad Arcore molti anni fa: mi accompagnava l’autista del Giornale. Quando Berlusconi mi scortò fino alla macchina, non solo salutò l’autista come se lo avesse conosciuto da sempre, ma con lui si mise a discutere del Milan. L’altro ricordo riguarda il funerale della madre, nella cappella di villa San Martino. Entrò prima che iniziasse la funzione e si mise a sistemare le sedie, perché tutto fosse in ordine per l’addio alla mamma che aveva amato tanto. Ecco, era un tipo così, un perfezionista anche nell’ora dell’addio Non perdeva di vista nessuno e si curava di cose che noi, con le lacrime agli occhi, non avremmo ritenuto importanti. La prima volta che registrai un’intervista televisiva con lui, preso com’ero dalle domande che gli volevo fare, mentre rispondeva al primo quesito guardai i fogli di appunti che avevo preparato. Lui si interruppe e mi disse: così non va bene, lei mi deve guardare. È vero quello che disse Enzo Biagi: se avesse avuto le tette avrebbe fatto anche l’annunciatrice. Di sicuro, oltre a fare l’imprenditore, il presidente del Milan, quello della Fininvest, il capo di governo e non so che altro, voleva fare anche il giornalista e se avesse potuto oltre alle risposte avrebbe fatto anche le domande. Era così, uno che aveva tanti sogni nella testa e li ha realizzati tutti. Ecco perché ha vinto e perché rimarrà nella storia a differenza di tutti coloro che gli sono stati nemici, il cui unico sogno non era fare qualche cosa di grande, ma solo impedire a lui di realizzarlo.
Fonte: La Verità
Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.
Articoli Recenti
Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Luca Greco - Reg. Trib. di Milano n°40 del 14/05/2020 - © 2025 - Il Giornale d'Italia