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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Aldo Moro, 45 anni di menzogne, di false verità e di formule retoriche

In quel 1978 nessuno voleva vivo lo statista democristiano e la sua rimozione fu davvero un colossale intrigo internazionale per il quale le BR funzionarono solo da strumento operativo.

09 Maggio 2023

Aldo Moro in via Caetani

Insomma, perché Aldo Moro è morto? Quarantacinque anni dopo non lo sappiamo con certezza perché gli unici che potrebbero rispondere non rispondono. A cominciare dai brigatisti rossi e non tutti fra loro, giusto Mario Moretti che delle BR disponeva a piacimento, almeno fino al punto di intersezione fra le piramidi contrapposte, in basso a salire la manovalanza terrorista, dal vertice basso ad allargarsi il reticolo dei poteri sporchi, oltre i confini, sino in America e in Europa. Non rispose Cossiga, figuriamoci Andreotti, e continua a fare la sfinge Moretti, il marchigiano, che per servizi resi si gode una sorta di semilibertà quasi piena, sei ergastoli e solo dodici anni di galera vera. Quarantacinque anni fa il presidente della DC eliminato dalla Brigate Rosse dirottava la vicenda italiana a tutti i livelli: dissero in un garage e poi, in una cesta, ma era l'ultima di una serie infinita di menzogne, venne fatto fuori nell'ultimo covo, dalle parti del ghetto ebraico come informava Pecorelli che le cose le sapeva e meno di un anno dopo sarebbe stato a sua volta eliminato, la pistola alla tempia nel buio di una sera romana di quasi primavera. Moro fu scaricato dentro una Renault 4 rimasta celebre come un feticcio pop, scaricato in via Caetani, beffardamente al crocevia delle sedi democristiana e comunista, come a dire noi vi ridiamo il vostro Stato, quello che ne resta, un cadavere, un fantoccio umiliato. Perché? Per distruggere la sua politica, spiega proprio Moretti, che si assunse la responsabilità della sua esecuzione, a Rossana Rossanda e Carla Mosca, coautrici con lui del libro “Brigate Rosse. Una storia italiana: “Altrimenti diventava presidente della Repubblica”. Per questo si uccide un uomo, si dirotta la storia?

Quello che si può dire con certezza è che il presidente della Democrazia Cristiana, sequestrato mentre si avviava a varare un inedito governo in collaborazione con i comunisti, non aveva amici e lo sapeva. Sapeva di essersi infilato in un vicolo morto. Solo, isolato, inviso agli Stati Uniti, a Israele, ma anche alla Russia, a parecchia Europa e da dieci anni prima di quei mesi convulsi, piombati, che precedettero il suo sacrificio. Le avvisaglie del suo rapimento rimbalzano per settimane, per mesi, intensificandosi nelle ore della vigilia, nei posti più strani, carceri, scuole, università, trattorie, viene perfino annunciato in diretta 8,15 su Radio Città Futura, il cui direttore, Renzo Rossellini, interpellato, racconta di avere ripreso la notizia da Radio Onda Rossa, 15 minuti prima, attribuendone la veridicità a “supposizione metafisica” (sic!). Fatalmente, Aldo Moro viene prelevato alle ore 9,08 del 16 marzo 1978 in via Fani, al termine di una azione fulminea, durata 300 secondi, che lascia sull'asfalto tutti e cinque gli uomini della scorta. Nell'arco di pochi istanti il blitz viene risolto con efficacia micidiale. Da parte terrorista vengono esplosi 91 proiettili (6 dalla scorta), 49 dei quali da un unico mitra, uno Sten o uno Fna 43 maneggiato, secondo diversi testi, in particolare da un benzinaio esperto d'armi, da un uomo che si muove con tecnica specializzata. Non verrà mai identificato e su di lui le ipotesi si sprecheranno: da un professionista del Mossad (in antichi e costanti rapporti con le BR...), ad uno dei Servizi della Germania est, fino ad un ex mercenario calabrese che graviterebbe nell'orbita dell'eversione di sinistra. È probabile sia arrivato dalla Libia, su un aereo di linea che poi lo ha aspettato a Ciampino dove è risalito pochi minuti dopo il blitz.

È uno shock per molti, ma una sorpresa per pochi. Negli ambienti di intelligence di mezzo mondo, dall'est Europeo a Parigi, si attende il rapimento di “un importante uomo politico italiano”. Racconterà il giudice Rosario Priore (in “Intrigo internazionale”, con Giovanni Fasanella): “Un mese e mezzo prima di via Fani, a Milano si incontrarono uomini della RAF e delle BR. Quindi è molto probabile che certe notizie si diffondessero quasi in tempo reale. [i francesi] ci dissero che l'obiettivo dell'operazione era un uomo politico di alto livello, appartenente al partito di maggioranza, cioè la Democrazia Cristiana”.

Moro è prigioniero nel cuore di Roma e parte il balletto dei comunicati brigatisti, fiumi di parole che non dicono niente. Nel sesto comunicato, annunciano: “Non ci sono segreti che riguardano la DC”. E Moro ha appena scritto di Gladio. Non è vero che “su Moro si sa tutto”. I misteri dolorosi, le cose che non tornano, sovrastano quelle che faticosamente si è riusciti a chiarire. A tutt'oggi non si sa neppure quanti fossero i terroristi presenti in via Fani; i 9 iniziali sono saliti a 14, ma c'è chi ne ipotizza addirittura 20. Tutti fuori da anni. Qualcuno, rifugiato all'estero, non ha scontato un solo giorno, come Alessio Casimirri, figlio di un funzionario del Vaticano. Anche il famoso Abbè Pierre francese era un protettore dei killer di Moro e un padre nobile di quella scuola Hyperion di Parigi che concentrava, a livelli concentrici, il meglio del terrorismo internazionale e, attorno a loro, lo spionaggio internazionale.

Sei processi, due commissioni d'inchiesta, una più omertosa e lacunosa dell'altra a dispetto degli sforzi eroici dell'ex parlamentare comunista Sergio Flamigni cui si deve il grosso di quanto su Moro si sa. Flamigni che, incurante di boicottaggi e diffamazioni, andava avanti per la sua strada, libro dopo libro, dimostrando le infinite fandonie spartite fra brigatisti e istituzioni, fra stato e antistato i cui Servizi piduisti stavano sotto la supervisione di Cossiga, debitamente promosso anche lui: da disastroso ministro dell'Interno sotto rapimento Moro a presidente della Repubblica. Gli ignari, gli esaltati lo rimpiangono questo Cossiga ciclotimico, isterico, sì, ma quando serviva gelido e spietato nel far trionfare la ragion di stato che coincideva con quella della Democrazia Cristiana che coincideva con il culo parato della sua cosca dirigente.

Un successore di Cossiga, il Mattarella garante del regime sanitario, ogni anno va sulla lapide in via Fani e dice più o meno la solita cosa: “Il terrorismo l'ha sconfitto la democrazia”. Sono le formule che piace pronunciare e piace ascoltare ma la verità è diversa e Mattarella la conosce: il terrorismo lo ha sconfitto il generale Dalla Chiesa una volta che lo Stato gli ha lasciato pieni poteri, avendo capito che le sue strategie della tensione incrociata, nera e rossa, gli stavano sfuggendo di mano e rischiava di non controllarle più. Dalla Chiesa in tre mesi risolse dieci anni di indecisioni: con un nucleo di uomini pescati da tutti i corpi, che riferivano solo a lui, fece terra bruciata ai terroristi censendo i covi e facendoli saltare uno dopo l'altro; nemmeno 5 mesi dopo via Caetani, arriva a quello, strategico, di via Monte Nevoso a Milano, zona Lambrate, strategico perchè vi si custodiva, in copia, il memoriale Moro, sequestrato e passato a Andreotti prima che alla magistratura, che lo riceveva purgato. Dodici anni dopo, nel 1990, una casualità avrebbe fatto emergere in quel piano rialzato nuove versioni, nuove rivelazioni tra le quali quella, dirompente ma censurata dai brigatisti, di Gladio, la struttura clandestina in funzione anticomunista. Ormai si poteva sapere. Dalla Chiesa era già morto da un pezzo, nel 1982 lo Stato, per servizi resi, lo andrebbe mandato a farsi ammazzare dalla mafia dopo averlo totalmente isolato. E Dalla Chiesa lo sapeva e lo diceva a Giorgio Bocca che ne raccoglieva l'ultima intervista. E Tommaso Buscetta, superpentito di mafia, spiegava che tra gli omicidi di Pecorelli e Dalla Chiesa c'era un filo rosso, non delle brigate, non della mafia, ma tessuto dal potere.

La democrazia insidiata dal terrorismo salvata dalla democrazia? Quale? Quella dei partiti in combutta con la loggia P2 di Licio Gelli? Quella del ministro Cossiga impotente per tutti e 55 i giorni del sequestro, con i trecentomila fra carabinieri, poliziotti e finanzieri che giravano a vuoto? A quarantacinque anni da via Fani, da via Caetani siamo ancora alle corone di fiori ma non si sa perché sia morto Aldo Moro, nessuno sa spiegarlo in maniera esaustiva e meno di tutti i presunti macellai, decrepiti ma tronfi e torbidi come sempre. Intanto i testimoni spirano uno dopo l'altro portandosi in tomba i segreti che contano; intanto le commissioni d'inchiesta si susseguono e qualcosa fanno, ma un po' alla maniera di Diogene che col lanternino cercava l'uomo. E a volte lo cercano per non trovarlo.

Dove sta il memoriale vero, il manoscritto di Moro? È vero che riposa conservati nel caveau di una banca svizzera, come qualcosa che vale più dei lingotti, dei titoli? Dove stanno le svariate prigioni dell'ostaggio a parte quella, leggendaria, di via Montalcini? Lungo il litorale di Marina di Palidoro, a Fiumicino? Dalle parti del Ghetto, vicino a dove la R4 col suo cadavere fu ritrovata? In via Massimi, a due passi da via Fani e da via Stresa dove Moro aveva lo studio, dove fu portato immediatamente dopo la cattura, in uno stabile dove giravano cardinali massoni ed elementi della CIA americana? Se davvero il terrorismo “l'ha sconfitto la democrazia”, è stata una democrazia molto distratta, molto compromessa con chi voleva cancellarla.

E che ancora rimuove quello che può di cinquantacinque giorni allucinanti nei quali si vide di tutto, falsi comunicati, falsi annunci della morte dell'ostaggio “mediante suicidio”, false sedute spiritiche, maneggi degli apparati statali piduisti in combutta con la Banda della Magliana, covi platealmente scoperchiati, messaggi clamorosi, contraddizioni dei brigatisti che passano con disinvoltura da un comunicato in cui si ribadisce che “nulla verrà tenuto nascosto al popolo” alla affermazione impune secondo cui “il prigioniero non ha rivelato cose di cui il popolo non fosse già al corrente”. E invece ha appena parlato di Gladio, del ruolo di Cossiga e di Andreotti, di retroscena democristiani potenzialmente esplosivi, censurati dai carcerieri e fatti sparire anche dai reperti. Quasi tutti i covi, anche quelli di prigionia di Moro, risultano strani, ambigui e qui si torna a Sergio Flamigni, al suo lavoro di scavo. In 45 anni anni ha demolito una dopo l'altra le mille false verità concordate fra Stato ed eversione: sul numero dei partecipanti all'operazione di via Fani, sulle dinamiche della strage, sulle auto parcheggiate nel luogo dell'agguato, in modo strategico, tutte appartenenti ai servizi segreti così come la gran parte dei covi, su tutti quello di via Gradoli che ospitava il capo Moretti e la fidanzata Balzerani; sul ruolo e l'identità dei carcerieri di Moro, sulle circostanze della prigionia, sulle omissioni e le compromissioni di Stato, sui memoriali di comodo come quello, citato, di Morucci, emblematico di una storia che a tutti i costi non si vuole risolvere. Documento dalla gestazione torbida, scritto insieme al giornalista della destra DC Remigio Cavedon, veicolato da una religiosa carceraria, suor Teresilla Barillà, con funzioni di raccordo tra brigatisti detenuti e settori della Democrazia Cristiana, fino all'immancabile presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Come diceva il giornalista-spione Mino Pecorelli prima d'essere a sua volta fatto fuori, alla vigilia di nuove dirompenti rivelaazioni: “verrà un'amnistia a tutto lavare, tutto obliare”. E che sia “una versione che fa acqua da tutte le parti”, quella ufficiale o meglio ufficializzata, non lo dice solo Flamigni, lo dicono i brigatisti come Raimondo Etro, che, quando parla di Moretti, lo indica così: “Il cosiddetto capo Mario Moretti”.

In via Fani c'era una folla in parte incomprensibile agli stessi brigatisti; c'erano mezzi, una moto con un autista e un passeggero che scarica una raffica di mitra contro uno che non c'entra niente, mancandolo per un soffio; c'era un benzinaio esperto di armi da fuoco, un fotografo i cui rullini si perdono, ci sono tecnici della Sip controllata dalla P2, c'è un colonnello dei Servizi, Camillo Guglielmi, che è lì perché doveva “andare a pranzo da un amico”. Alle 9 di mattina. Ci sono macchine che ostruiscono le manovre e consentono l'agguato, veicoli che spariscono e li ritrovano poche ore dopo in via Licino Calvo, lungo la strada di fuga dei terroristi. Intanto, si brindava. Oggi non piace ricordarlo, ma quel 16 marzo e poi quel 9 maggio del 1978 e per tutti i due mesi circa del sequestro fu un continuo tripudio nelle fabbriche, nelle scuole e nelle università, nei salotti, nelle redazioni. Ma chi, sano di mente, poteva aspettarsi la rivoluzione con Moro prigioniero? La rivoluzione non venne e arrivò la restaurazione, lo Stato o meglio lo status quo trasse partito dalla crisi interna delle BR; cominciava il lungo, inesorabile declino della prima repubblica, destinata a naufragare 15 anni dopo per decomposizione interna e conseguente via giudiziaria, non del tutto limpida. Ma partì tutto dalla fine di Moro, il cui congedo è atrocemente profetico: “Il mio sangue ricadrà su di voi”. Voleva dire voi politici, voi consociativismo, sistema che mi ha sacrificato sull'altare della convenienza. Cioè sapeva che dietro i rivoluzionari c'era la restaurazione. A dire che il terrorismo l'ha sconfitto la democrazia non si sbaglia mai, anche se è dire tutto per dire niente, ma il potere dell'oblio è forte: sul muro dell'università di Padova resiste una scritta verde, idiota: “Moro testimonial della R4”. Moro torna a dividere e a far discutere anche oggi, questa volta a Recanati: una raccolta di firme dei residenti, “via Aldo Moro resti a senso unico sempre, non solo quando c'è la partita di pallone”.

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