27 Gennaio 2023
Una memoria non basta. C'è un'altra vicenda che meriterebbe una data, è la ricorrenza di quel colossale esperimento concentrazionario partito dalla Cina e sviluppatosi, quello sì in modo pandemico, in tutto il mondo con epicentro della vergogna in Italia. Un altro giorno della memoria per non dimenticare quando le nostre prerogative di uomini liberi, i nostri diritti di cittadini democratici sono state cancellate con legislazioni formalmente emergenziali, nella pratica eversive. Non si farà mai, non si azzarderanno, le commissioni d'inchiesta promesse serviranno, se mai approderanno a qualcosa, solo a risolvere le responsabilità diffuse nel segno dell'ennesimo sconcio abbraccio con cui la politica si assolve. Eppure servirebbe. Anche questo lo si potrebbe celebrare d'inverno, a fine gennaio, perché fu allora che, tre anni fa, il mondo cambiò. Il mondo si perse.
C'era una volta un virus sfuggito da un laboratorio di una megalopoli cinese, ma era indelicato dirlo, comandava un governo che dalla Cina riceveva ispirazioni – e ne avrebbe intercettate sempre più da quei confusi giorni, con un Presidente che andava per le scuole cinesi e incoraggiava la fratellanza antirazzista nel segno dell'involtino primavera: pratica subito emulata dalle (e dai) peggiori dementi della nostra generazione giornalistica. Si perserò così giorni, settimane preziose, mentre le prime menzogne cominciavano a stravolgere la realtà: “Siamo pronti, è tutto sotto controllo, è solo un'influenza” dicevano politici, virologi – una curiosa sottospecie di scienziati fino a lì mai praticati – e i soliti immancabili leccaculo a giro negli studi televisivi (presto avrebbero capovolto le loro idee). Lo diceva per primo il presidente del Consiglio, anche quello una creazione di laboratorio. Lo ripeteva il ministro della Salute, un fobico. Intanto si mascherava l'assenza di un paio pandemico aggiornato; si equivocavano le cure; si spedivano pazienti di quel morbo tuttora sconosciuto (perché la Cina rifiutava qualsiasi informazione utile) in ospedale, dove, sottoposti a ventilazione coatta, i loro polmoni scoppiavano. Altre terapie non erano previste oltre la “tachipirina e vigile attesa”, che nessuno capiva chi avesse deciso ma equivaleva a un invito: arrangiatevi. Da parte sua, l'informazione di potere cominciava con la conta dei cadaveri, invariabialmente attribuiti alla malattia misteriosa, con le processioni di furgoni neri farciti di sacchi riempiti di corpi, col terrorismo isterico; ma le autopsie venivano negate però.
Si procedette a vista per un anno, con misure autoritarie definite “coprifuoco” e ribattezzate lockdown, perché in inglese suonano sempre meglio. Tutto sbarrato, chiuso, impraticabile. Vietato uscire, lavorare, viaggiare, prendere un caffè. Il governo prometteva: è solo per pochi giorni, per poche settimane. Poi aggiungeva: chiudere adesso per salvare la Pasqua, chiudere a Pasqua per salvare l'estate; poi in autunno ricominciava, chiudere per salvare il Natale, l'Epifania, la Pasqua. Ed era passato un altro anno e un altro governo. Nel frattempo i vaccini, che il mondo attendeva, erano stati escogitati, e diffusi. Il che, tuttavia, non risolveva la questione degli impedimenti, ormai diventati nuova normalità, blindata da forze di polizia sempre più aggressive, arroganti, violente. Sempre più cinesi. E sempre più fomentate da individui che avevano rinunciato alla propria dignità di cittadini liberi per mettersi al servizio del regime con le spiate, le delazioni, gli attacchi personali o via social. Eravamo già in una dittatura, in uno stato concentrazionario solo apparentemente morbido: non venivano a prenderti per portarti via da casa, venivano a prenderti per rinchiuderti in casa. Non ti sradicavano umiliandoti, ti umiliavano facendoti implodere. Il lager era la tua abitazione. Poi, tra una corruzione e uno spreco, ovviamente colossali, tra una statistica truccata e un bollettino ansiogeno, diffondevano l'obbligo di pungersi. Una dose, poi due. I virologi, diventati ormai astrologi della salute, decantavano le lodi senza riserve di questi preparati che però rimanevano misteriosi. Dicevano i virologi: sul nostro onore, due dosi risolveranno il problema. Poi tre. Poi quattro. Poi una ogni tre mesi. Poi ogni sei settimane. Il nuovo presidente del Consiglio, un banchiere che tuttavia aveva sempre praticato la politica d'alto bordo, lungi dall'allentare la morsa del regime la potenziava coi ricatti moralistici: “Non ti vaccini, ti ammali, muori e fai morire” (più avanti avrebbe fatto la stessa cosa a proposito di una guerra ai confini europei).
Dopo le app che tracciavano, che dicevano tutto di noi allo stato, venne concepito un meccanismo elettronico chiamato, chissà perché, greenpass: controllava lo stato vaccinale del soggetto, forniva le informazioni alla centrale del potere che procedeva di conseguenza: quanti sorpresi in fase non aggiornata venivano ostacolati in ogni modo: non potevano uscire, recarsi al lavoro, mantenere la famiglia e, quel che è peggio, veniva fornita licenza di aggressione, di odio e di dannazione su di loro. Avallata dallo stesso Presidente in plurime occasioni. Fu il colmo della vergogna, un parossismo del quale portiamo ancora le conseguenze: le multe per chi non avesse proceduto dalla terza somministrazione in poi le stiamo ancora ricevendo, nonostante il nuovo governo, formalmente di colore inverso al precedente, ne avesse promesso solennemente la cancellazione.
Fu l'esperimento sociale italiano di cui parlò, a un dato momento, la stampa di tutto il mondo. Una follia collettiva, orchestrata dal regime, andata perfino oltre il modello originale cinese. Il ministro della Salute, un comunista, si lasciò sfuggire un libercolo, immediatamente ritirato, in cui salutava la pandemia quale “una magnifica occasione per imporre un nuovo tipo di egemonia culturale in senso gramsciano”.
Così abbiamo vissuto per quasi tre anni. La stretta concentrazionaria non si è esaurita per rivoluzione sociale o per rinsavimento del regime ma semplicemente per consunzione naturale: il governo si è sfilacciato e poi è crollato per logiche interne, meschine camarille, questioni di potere, ed è subentrato, con una certa lentezza, un nuovo esecutivo che tuttavia in materia sanitaria non sembra avere sviluppato una rottura col recente passato quanto, se mai, una sorta di continuità. Oggi, a distanza di mesi, praticamente tutti gli studi, i riscontri, i dati, le statistiche convergono su una verità indiscutibile, che alcuni avevano peraltro già difeso, ritrovandosi emarginati e demonizzati proprio come nelle dittature conclamate: tanto zelo, tanta ferocia, tanta brutalità non solo non erano servite, ma si erano rivelate controproducenti, complicando una situazione sulla quale le zone d'ombra non avevano mai smesso di sovrastare gli elementi chiari. Anche sulle misteriose pozioni la prova della realtà offriva risvolti inquietanti: sempre più effetti collaterali, cuori crepati, morti improvvise, sindromi inspiegabili, stati di malessere endemico, paralisi, malattie e insorgenze fulminanti. Con i dottor Stranamore che ora si sottraevano al pubblico confronto in sede europea, ora ammettevano candidamente di non avere mai testato i loro prodotti, ma solo di averli approntati nel minor tempo possibile per esigenze legate ad affari immani; gli stessi che, transitati per le massime autorità dell'Unione Europea, intaccavano coscienze e reputazioni.
Anni di guerra: questo sono stati, questo abbiamo vissuto. Una guerra non dichiarata, contro un nemico senza volto, eppure evocata in modo perfino ossessivo: “Siamo in guerra, dobbiamo difenderci”. Ma i cittadini, in particolare quelli italiani, avrebbero se mai dovuto difendersi da chi la guerra l'aveva dichiarata a loro, e, con quel pretesto retorico, non si faceva scrupolo a costringerli, torturarli, picchiarli, massacrarli con le cariche e gli idranti, a portarli via, a fermarli, a identificarli, a spaventarli, a tartassarli, a multarli, ad umiliarli, a rieducarli, a dannarli in perpetuo, a sradicarli fuori dal consorzio sociale. Non ci è mancato niente. Abbiamo subìto ogni aspetto di una dittatura solo formalmente morbida. Ogni assurdità ed ogni follia, che è il tratto distintivo delle dittature. I nostri figli si sono ammalati nel corpo e nella mente. È cresciuto il consumo di farmaci, di psicofarmaci, di alcoolici, di droghe. La depressione è diventata la prima patologia sociale. Il governo a un certo punto ha elargito o almeno proposto un bonus psicologico per le cure mentali. Circa un milione di attività produttive è saltato in due anni e mezzo di vessazioni e restrizioni. Interi comparti si sono sfilacciati fino a perdersi. Viviamo peggio, ci curiamo meno; la qualità dell'assistenza per altre malattie è andata ulteriormente peggiorando. La socialità è diventata un ricordo. La libertà, valore supremo delle società democratiche, è stata dipinta come un vizio, un peccato e infine un reato e addirittura un crimine. La comunicazione informativa ha diviso, con l'uso sistematico della menzogna, i cittadini per fedeltà vaccinale, dipingendo gli scettici, i contrari o semplicemente i pentiti, dopo plurime conseguenze seguite alle prime dosi, come infami, terroristi, depravati, reprobi. Sono tutte ricadute devastanti e potremmo continuare ad elencarne altre. Nel volgere di una trentina di mesi siamo progressivamente precipitati in uno stato psicofisico e psicosociale inedito, malato, dal quale non potremo mai riprenderci completamente.
Ecco perché avremmo bisogno di far decantare quest'altra memoria. Di esorcizzarla e di tenerla viva. Ecco perché servirebbe, sarebbe anzi doveroso, poter dire anche in questo caso “considerate che questo è stato”. Ma non verrà mai fatto e se pure qualcuno volesse decidersi a farlo, ne uscirà spezzato, definitivamente distrutto dal potere. Proprio perché è stato un esperimento sociale quello condotto sulla nostra pelle e sulla nostra psiche. Perché è stato un prototipo per capire quanto potesse essere facile sradicare dalla gente l'idea di libertà. Appurato che non ci è voluto niente, che la gente crede a tutto, il modello resta utile con tutti i suoi QR, i greenpass, i vaccini passepartout, le app di tracciamento, i presidi sanitari. Non hanno smantellato niente, hanno congelato tutto. E già parlano di “permacrisi”, per dire lo stato di emergenza permanente che vegeta sull'attesa spasmodica di nuove catastrofi. Se non arrivassero, si potranno sempre creare o almeno millantare, c'è solo l'imbarazzo della scelta: guerre (altrui, da fare proprie), carestie, carenze energetiche, presunta estinzione umana, presunta autodistruzione della terra... A tutto si può prestare fede. Noi non siamo più quelli che usavamo essere, e mai più torneremo quelli di prima. Neppure sapremo davvero cosa è successo, cosa ci è stato fatto, e perché. Avremmo bisogno di nuova memoria, ci forniranno nuova paura.
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