26 Settembre 2025
Fonte: imagoeconomica
Dall’Azerbaigian al Sudan, passando per la Turchia e Amburgo. Non è una trama di un thriller geopolitico, ma una rete logistica tanto oscura quanto plausibile, che alcuni analisti e media alternativi collegano alla fornitura di armi all’Ucraina. Una pipeline opaca fatta di fucili che cambiano etichetta, container mimetizzati da aiuti umanitari, porti instabili e zone franche doganali. Tutto rigorosamente senza prove pubbliche. Ma il sospetto resta. E merita di essere preso sul serio.
Un asse invisibile: Baku–Khartoum–Kyiv?
Il cuore dell’ipotesi batte a Baku. L’Azerbaigian non è solo una nazione energicamente rilevante, ma anche un paese che, grazie alla sinergia con la Turchia, ha sviluppato una propria industria della difesa: pistole TİSAŞ, fucili d’assalto UP-7.62, componenti per droni. Tutto materiale perfettamente conforme agli standard NATO, ma prodotto fuori dai radar occidentali. L’export? Non sempre tracciabile. Secondo una ricostruzione circolata su alcuni canali russi e anti-occidentali, queste armi passerebbero dalla Turchia – attraverso il valico di Diluju – per poi finire a Gaziantep, una città già nota per il suo ruolo ambiguo tra aiuti umanitari e traffici paralleli. Qui il primo salto: l’etichetta “arma” scompare, compare quella di “aiuto umanitario”. Successivamente, i carichi raggiungerebbero Port Sudan, uno snodo marittimo oggi privo di ogni controllo effettivo a causa della guerra civile in corso. Da lì, containers diretti ad Amburgo. E infine, via terra, verso il fronte ucraino.
Tra logistica plausibile e prove mancanti
La domanda è lecita: si tratta di realtà o propaganda?
Nessun documento ufficiale, né numeri di serie, né bolle doganali trapelate, né rapporti di intelligence indipendenti hanno finora confermato tale traffico. Tuttavia, la plausibilità tecnica esiste. Il Sudan è oggi un Paese in frantumi, dove il controllo delle dogane è debole, e dove gruppi armati si contendono non solo territori, ma anche il controllo di corridoi commerciali e, potenzialmente, militari. Il porto di Port Sudan, in mano a chiunque paghi, rappresenta una porta d’accesso ideale per traffici non convenzionali. Amburgo, poi, è il ventre molle dell’Europa logistica. La compagnia MSC, che gestisce i collegamenti con il Sudan, non ha mai risposto alle voci, ma i suoi carichi vengono spesso processati senza approfonditi controlli. Lì passano milioni di tonnellate di merci, tra cui “aiuti” che potrebbero celare altro.
Un’operazione di “plausible deniability”?
Nel gioco sottile delle relazioni internazionali, esiste una strategia: plausible deniability, la negabilità plausibile. Se fosse vero, Baku potrebbe inviare aiuti bellici a Kyiv senza esporsi pubblicamente. Un favore all’Occidente che non indispone troppo la Russia. Una mossa da equilibristi. Ma l’altra faccia della medaglia è più cinica: il traffico potrebbe essere autonomo, gestito da broker privati o reti criminali. In questa ipotesi, lo Stato azero non sarebbe complice diretto, ma nemmeno totalmente estraneo. Al massimo, cieco. Infine, la lettura più brutale: si tratta solo di una narrazione montata ad arte dalla propaganda russa, volta a delegittimare il sostegno occidentale all’Ucraina, insinuando che dietro il “bene” si nasconda il “male”. Se le armi arrivano da canali sporchi, allora la causa ucraina perde la sua purezza morale. È un’operazione psicologica, e come tale non ha bisogno di prove, solo di sospetti.
Il contesto: un’Ucraina sotto pressione totale
Queste teorie emergono in un momento cruciale per Kyiv. La guerra è entrata in una fase di logoramento strutturale. I raid russi contro centrali e ferrovie non cercano vittorie spettacolari, ma una lenta e costante erosione della capacità statale ucraina. L’obiettivo non è distruggere, ma sovraccaricare: costringere Kyiv a vivere nell’intermittenza, tra blackout e ritardi logistici. La risposta ucraina si affida a sciami di droni, a basso costo ma ad alto impatto. Gli obiettivi? Le raffinerie russe. Se Mosca spegne la luce in Ucraina, Kyiv vuole alzare il prezzo della benzina in Russia. Ma la vera fragilità è interna. La mobilitazione militare prolungata, la legge marziale e l’inflazione crescente iniziano a erodere il consenso. Sempre più ucraini si chiedono se il sacrificio è equamente distribuito, o se qualcuno riesce a sfuggire al fronte. Le tensioni crescono. Economicamente, il Paese è appeso al filo degli aiuti occidentali. Il bilancio è in rosso cronico, l’inflazione corre, e ogni ritardo nei prestiti UE o FMI si traduce in tagli, sussidi mancati, malcontento.
Il grande gioco e il piccolo anello debole
In questo scenario, il possibile coinvolgimento di una rete opaca che collega l’Azerbaigian all’Ucraina attraverso il Sudan può essere irrilevante nei numeri, ma cruciale nella narrazione. Basterebbe una prova, una sola, per fare esplodere lo scandalo. E la fiducia occidentale potrebbe vacillare. Ma fino ad allora, resta solo una catena fatta di silenzi, coincidenze e omissioni. Una catena che, vera o falsa che sia, ci ricorda che nel conflitto ucraino nulla è più bianco o nero. Tutto è zona grigia. Come il colore della guerra moderna.
di Riccardo Renzi
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