03 Luglio 2025
Il 19 settembre 2020 l’Azerbaijan ha lanciato una guerra lampo di 44 giorni per riprendere il Nagorno-Karabakh, una regione contesa da decenni con l’Armenia. Alla fine, gli armeni si sono arresi. Una vittoria totale, rapida, chirurgica.
Ma soprattutto, una vittoria simbolica. Per Baku è stata la chiusura di una ferita aperta dal 1994, il compimento di una rivincita attesa da generazioni, un riscatto nazionale. Nel 2020, poco prima dell’inizio della pandemia, ero a Barda, Mingacevir, e giù sul confine. Il Karabakh non era solo territorio. Era orgoglio nazionale, rivincita etnica, messaggio geopolitico. E dopo quella vittoria qualcosa è cambiato. L’Azerbaijan ha iniziato a consolidare le sue alleanze. Non subito, ma con metodo, pazienza e visione.
Con la Turchia l’intesa si è rafforzata nella Dichiarazione di Shusha del 2021, ma ha preso forma concreta proprio dopo il conflitto, con esercitazioni congiunte, addestramento e interoperabilità militare.
Con Israele i legami, già forti sul piano energetico, sono diventati ancora più stretti. Droni, radar, sistemi di guerra elettronica. Israele importa fino al 60 per cento del suo petrolio dall’Azerbaijan e, secondo diverse fonti, fornisce in cambio tecnologia militare e supporto d’intelligence. Si stima che l’Azerbaijan spenda il 5,5% del PIL in spesa militare.
Lungo il confine settentrionale dell’Iran vivono tra 15 e 30 milioni di azeri iraniani, più del doppio rispetto alla popolazione della Repubblica dell’Azerbaijan, che oggi conta circa 10 milioni di abitanti. Nel 2024, il governatore di Astara mi diceva che gli azeri in Iran sono 30 milioni. Talish. A me sembrano tanti, ma chissà. In ogni caso, sono milioni. Fuori dall’Iran e dall’Azerbaijan, comunità azere vivono anche nell’est della Turchia e in Georgia, nella zona di Marneuli e dintorni.
Tutte aree dove si accumula tensione. Identitaria, culturale, strategica. Perché l’etnia azera non si ferma ai confini dello Stato. È dispersa ma interconnessa. Un popolo diviso in più Paesi, ma unito da lingua, religione e ambizioni comuni. E Baku, con la sua nuova fiducia post-vittoria, parla sempre più da leader regionale.
Ora che Israele ha colpito direttamente l’Iran, si parla apertamente di un coinvolgimento azero. Droni in transito, basi condivise, radar a disposizione. Nulla è confermato, tutto viene negato, ma i segnali ci sono.
L’Iran teme non solo un attacco. Teme un fronte interno. La sua minoranza azera, numerosa e culturalmente viva, può diventare un terreno sensibile se alimentato da fuori.
Non dico che l’Azerbaijan attaccherà l’Iran. Ma dopo il blitz nel Karabakh ha guadagnato fiducia, strumenti, alleati. E il Caucaso, da confine dimenticato, si sta trasformando in zona di frizione tra potenze.
Forse il Karabakh era solo l’inizio. E forse, davvero, non è più solo una questione di confini. Ma di fronti.
di Diana Ferrari
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